Scienza e Arte, due culture allo specchio

Fece molto rumore, nel 1959, quasi sessant’anni fa, il libro con cui l’inglese Charles Percy Snow denunciava l’avvenuta separazione tra «le due culture», quella scientifica e quella umanistica. Snow sosteneva con forza l’idea che bisognasse recuperarla quella scissione. E, tuttavia, dava per scontato che la rottura si fosse ormai consumata.

C.P. Snow

C.P. Snow

Molti intellettuali, in Italia e fuori dall’Italia, furono colpiti dalla provocazione di Sir Charles Percy Snow. E reagirono. Primo Levi, per esempio, scrisse che se davvero esiste una «schisi» tra scienza e arte, si tratta di una «schisi innaturale»: perché questa separazione non la conoscevano né Dante, né Galileo e neppure «Empedocle, Leonardo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile».
Ancora oggi, forse oggi più che mai, siamo costretti a misurarci con la provocazione di Snow. Perché ancora oggi la rottura tra le «due culture» non è sanata. Tuttavia anche oggi, anzi oggi più che mai, posti di fronte alla divaricazione è utile e necessario assumere l’approccio di Primo Levi. Se c’è una «schisi» tra cultura umanistica e cultura scientifica, se c’è una separazione tra arte e scienza, questa è una «schisi innaturale». Perché le «due culture» sono in realtà una sola.

Primo Levi

Primo Levi

L’approccio di Levi al problema sollevato da Snow – la separazione tra le due culture può esistere, ma è innaturale – è davvero importante. Perché ci dice che l’arte e la scienza sono manifestazioni diverse, ma profondamente interpenetrate, di un’unica cultura, la cultura umana. Arte e scienza si intrecciano e quindi si influenzano reciprocamente: molto più di quanto, in prima battuta, siamo portati a credere. E i luoghi significativi del loro intreccio e della loro reciproca influenza sono innumerevoli, impossibili anche solo da riassumere in un breve discorso.
Le dimensioni principali di questo rapporto fitto, articolato e complesso tra arte e scienza – o, in ogni caso, quelle su cui rifletteremo con più attenzione sulla Rivista del Centro Studi di Città della Scienza – sono almeno tre:
1. L’arte e la scienza come prodotti dell’evoluzione biologica e culturale.
2. L’arte e la scienza come fonte reciproca di ispirazione.
3. L’arte come canale significativo della comunicazione della scienza.

 

Arte e scienza, prodotti dell’evoluzione biologica

La ricerca ormai piuttosto solida sull’origine dell’arte e della scienza in una prospettiva evoluzionistica ci consente di rintracciare, con buona probabilità, una loro origine comune nel corso della storia, evolutiva, della specie umana. L’arte e la scienza sembrano sono espressione, infatti, delle nuove capacità acquisite dalla specie Homo sapiens di formulare un pensiero astratto e di utilizzare queste capacità per elaborare una rappresentazione complessa del mondo.
Cosa sono i graffiti dipinti ad Altamira circa 40.000 anni fa se non una delle prime manifestazioni delle capacità artistiche di Homo sapiens e, nel medesimo tempo, una delle prime (e convincenti) manifestazioni delle sue capacità di elaborare un pensiero astratto? L’uomo di Cro-Magnon ha raggiunto livelli di raffinatezza sconosciuti agli altri ominini e agli altri animali nella capacità evolutiva (e quindi adattativa) di elaborare modelli astratti del mondo in cui vive. E l’arte rupestre ne è la plastica dimostrazione.

Arte rupestre, Grotte di Altamira

Arte rupestre, Grotte di Altamira

Tutto questo ci rimanda a un’altra dimensione della nostra ricerca: l’origine evolutiva del senso estetico. Tema che va oltre l’uomo e la sua storia evolutiva. È possibile infatti dimostrare che anche altre specie, più o meno vicine filogeneticamente all’uomo, posseggono un senso estetico e lo esprimono. L’osservazione di un simpatico scimpanzé, chiamato Congo, sembra aver dimostrato, per esempio, che i nostri cugini possono acquisire una certa dimestichezza con la pittura astratta. Quando a Congo sono stati offerti dei pennelli e dei colori, lui li ha utilizzati per comporre delle figure astratte che secondo alcuni critici hanno una qualche valenza artistica. Inoltre Congo sembra avere il senso della compiutezza dell’opera. Una volta finito di dipingere, deponeva i pennelli e non si curava più dell’opera prodotta. Quando riteneva di non aver completato il suo lavoro artistico, continuava imperterrito e reagiva male se qualcuno cercava di portargli via i pennelli o i colori.

Congo mentre dipinge

Congo mentre dipinge

Anche gli uccelli, quando cantano, sembrano esprimere un notevole senso estetico. È nota la storia di Mozart, che il 27 maggio del 1784 ascolta il canto dello storno che ha in casa e ne trascrive la melodia (vedi figura). Sulla base di quella partitura musicale il grande compositore scrive un concerto per piano, il numero 17. Mozart ha colto nel canto dello storno un che di artistico. Qualcosa di significativo dal punto di vista estetico. Così significativo da meritare di essere ripreso e riproposto.

Il partito di Mozart e del suo storno

Il partito di Mozart e del suo storno

Nido di un uccello giardiniere

Nido di un uccello giardiniere

D’altra parte non mostra, forse, un notevole senso estetico l’uccello giardiniere quando costruisce i suoi nidi? Si badi bene, un senso estetico che viene percepito non solo dagli umani, ma anche dalle femmine della sua specie: le quali scelgono come partner i maschi capaci di costruire i nidi più belli. Il senso estetico dell’uccello giardiniere non è la lettura antropica di una sua capacità che ha altri significati biologici. Il senso estetico dell’uccello giardiniere emerge in modo inequivocabile attraverso una vera e propria opera di selezione biologica.

Quello del senso estetico e del suo significato evolutivo, d’altra parte, è un problema presente già in Charles Darwin, il quale si è interrogato a lungo, per esempio, sul ruolo adattativo della coda del pavone. Perché il pavone maschio ha quella sua coda bellissima, che da un punto di vista biologico rappresenta un handicap? Una coda molto lunga e ingombrante non aiuta certo nella lotta per la sopravvivenza. Dovrebbe essere un carattere cassato via dalla selezione naturale. Perché allora il pavone ha quella sua magnifica e ingombrante coda? Per rispondere a questa domanda Darwin immaginò l’esistenza di un altro tipo di evoluzione, diversa dalla selezione naturale del più adatto. La chiamò selezione sessuale. Un processo che si basa proprio sul senso estetico. In questo caso sul senso estetico delle femmine di pavone, che scelgono i loro partner sulla base della bellezza della coda anche se è ingombrante e poco adatta alla lotta per la sopravvivenza.

Il pavone e la sua coda

Il pavone e la sua coda

Tutto questo per dire che il senso estetico è qualcosa che, probabilmente, va ben oltre la specie umana. E appartiene a una parte cospicua del mondo biologico. Comprendere la sua origine e la sua funzione nell’evoluzione biologica è importante anche per l’uomo. Anche per il rapporto tra l’arte e la scienza dell’uomo.
Il senso estetico, infatti, ha avuto un ruolo profondo anche nell’evoluzione della scienza. Non a caso lo storico della fisica Gerald Holton ha parlato di seduzione ionica, per gli uomini che, intorno al V secolo a.C. in Grecia, iniziarono a utilizzare in maniera sistematica la potenza della ragione per indagare l’universo, anzi il cosmo: il tutto armoniosamente ordinato.

 

Arte e scienza, le basi comuni della creatività

Un’importante dimensione del rapporto tra arte e scienza in un’ottica evoluzionistica riguarda la psicologia della ricerca e, in particolare, la creatività. Anche in questo caso, tra scienziati e artisti, vi sono molti caratteri comuni.

Jacques Hadamard

Jacques Hadamard

Tra le persone che si sono occupate della psicologia della ricerca e dei meccanismi mentali che portano gli scienziati a indagare la natura e a realizzare le loro scoperte, vi è un grande matematico francese, Jacques Hadamard, tra i padri delle cosiddette «teorie del caos».
Ebbene Hadamard, all’inizio del Novecento, individuò due modelli attraverso cui si esercita la creatività degli scienziati: uno di carattere intuitivo, l’altro di carattere analitico. Quello intuitivo è sostanzialmente analogo al modello creativo degli artisti. Si nutre di analogie, di metafore, di immagini, di esperimenti mentali. Quello analitico è all’opposto, fondato sulla rigida applicazione di una logica formale, spesso della logica matematica, che lascia (sembrerebbe lasciare) poco spazio all’intuizione.

Ma Jacques Hadamard ha dimostrato con argomenti convincenti come persino nella più rigorosa adesione al modello analitico di creatività scientifica ci sia, all’origine, l’intuizione.

Albert Einstein

Albert Einstein

Il più grande fisico teorico del Novecento – e forse di ogni tempo – Albert Einstein ha riflettuto sulla sua personale psicologia della ricerca. E ha riconosciuto che l’intuizione era la molla scatenante della sua straordinaria creatività. Il primo passaggio nella costruzione delle sue teorie consisteva sempre nell’immaginare la realtà fisica che voleva descrivere. E solo dopo averla intuita Einstein dava il necessario corpo formale a una nuova teoria. Einstein è un classico esempio di come funziona il modello intuitivo della creatività scientifica.
Al contrario un altro grande fisico teorico del Novecento, Paul Dirac, è giunto a elaborare la teoria quantistica dell’elettrone e a scoprire la realtà fisica dell’antimateria per via puramente analitica. Sviluppando dimostrazioni matematiche. Dirac è un classico esempio di come funziona il modello analitico della creatività scientifica. E, tuttavia, occorre ricordare che anche Dirac si è convinto della bontà della sua elaborazione quando ha potuto osservare la semplice ed elegante «bellezza» delle sue equazioni. Dirac, a conclusione del suo lavoro teorico, ha concesso qualcosa, per sua stessa ammissione, al suo senso estetico. E prima, se ha ragione Hadamard, ha concesso qualcosa, magari senza riconoscerlo, alla sua intuizione.

Paul Dirac

Paul Dirac

L’intuizione è, naturalmente, il motore della creatività artistica. Tuttavia nei meccanismi mentali che sottendono il lavoro degli artisti e degli scienziati possiamo trovare qualcosa di più che una marcata analogia tra scienza e arte. Possiamo trovare forse il relitto della loro una comune origine: la necessità e l’acquisita capacità da parte di Homo sapiens di elaborare pensiero astratto e rappresentazioni sofisticate del mondo.

 

 

Arte e scienza, come fonti di reciproca ispirazione

Leonardo Benevolo, La cattura dell’infinito

Leonardo Benevolo, La cattura dell’infinito

La scienza influenza l’arte. La scienza influenza l’arte. È possibile dimostrare in maniera abbastanza facile che i concetti scientifici e la visione scientifica del mondo hanno influenzato l’arte in maniera significativa. Lo storico dell’architettura Leonardo Benevolo, per esempio, ha mostrato in un prezioso libro intitolato La cattura dell’infinito, come la scienza del Cinquecento e del Seicento, con la scoperta e l’affermazione del nuovo universo copernicano (la Terra che gira intorno al Sole) e galileiano (un universo enorme, praticamente infinito), abbiano profondamente influenzato l’urbanistica e l’architettura dell’epoca barocca e delle epoche successive. I giardini di Versailles, per esempio, sono uno dei frutti della «cattura dell’infinito» a opera degli architetti.

Un’influenza profonda delle scoperte scientifiche e, per dirla con Galileo, delle «scientifiche speculazioni», è possibile coglierla anche in letteratura.

Italo Calvino

Italo Calvino

Italo Calvino sosteneva che c’è una «vocazione profonda» che segna la letteratura italiana da Dante a Galileo: la filosofia naturale. O meglio: «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile».
Un filone del genere è presente in tutta la letteratura europea. Ma in Italia è particolarmente forte. Tanto da caratterizzare la letteratura italiana. Questa vocazione profonda, peraltro, si protrae ben oltre il Seicento. Interessa anche Leopardi e lo stesso Calvino. La caratterizzazione è così forte che, sostiene Calvino, quando la letteratura italiana smarrisce quella sua vocazione profonda perde la sua forza.

L’arte influenza la scienza. Ma non è solo la scienza a influenzare l’arte. Anche l’arte influenza la scienza. Abbiamo già accennato al criterio estetico usato da Paul Dirac per stabilire la validità della sua teoria scientifica in assenza in una prova sperimentale. Ma c’è anche un’ispirazione molto più diretta. Stephen J. Gould, lo storico della biologia e teorico dell’evoluzionismo scomparso un paio di anni fa, si è esplicitamente ispirato alla Basilica di San Marco a Venezia e alla struttura interna della sua cupola, nell’elaborare il concetto di «contingenza» e del ruolo che esso svolge nella struttura dell’evoluzione biologica.

Basilica di San Marco

Basilica di San Marco

L’arte, la scienza e lo “spirito dei tempi”. Molto spesso arte e scienza colgono insieme, quasi all’unisono, lo “spirito dei tempi”. E lo rafforzano. La sincronia talvolta è stupefacente. Pressoché perfetta.
Prendiamo in considerazione lo “strano caso” di Einstein e Picasso. Nel 1905 Albert Einstein è un giovane di 26 anni, laureato in fisica e impiegato all’Ufficio brevetti di Berna. Fuori dall’università e dal mondo accademico, dunque. Eppure riesce a elaborare una teoria fisica, la teoria cosiddetta della relatività speciale, con la quale spazza via il concetto di spazio assoluto e di tempo assoluto nella scienza.

Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon

Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon

Ebbene, pochi mesi dopo, nel 1906, un altro giovane della medesima età, Pablo Picasso, inizia a dipingere a Parigi un quadro (che sarà ultimato nel 1907), Les Demoiselles d’Avignon, con cui spazza via il concetto di spazio assoluto dalle arti figurative. La proposta è frutto di un pensiero, probabilmente, maturato in tempi molto stretti. All’inizio del 1906 Picasso dipinge il medesimo soggetto, donne in una casa chiusa, in un quadro, Harem, in cui la prospettiva è ancora quella, classica, dello spazio assoluto. Dopo pochi mesi quelle donne vivono nello spazio relativistico di Les Demoiselles d’Avignon. Qualcosa, d’improvviso, è intervenuto.
Una critica al concetto di spazio assoluto stava in realtà maturando nel panorama intellettuale europeo. Tuttavia la coincidenza dei due giovani, Albert e Pablo, che in dimensioni culturali diverse, hanno la medesima intuizione è davvero straordinaria. Anche e soprattutto perché Einstein e Picasso non si conoscono e non conoscono le loro rispettive opere. C’è evidentemente qualcosa che interviene in entrambi: e questo qualcosa è la capacità di cogliere “lo spirito dei tempi” e di portarlo a sintesi. Qualcuno, per esempio lo storico della scienza inglese Arthur Miller, sostiene che questa comune percezione è stata mediata da un matematico, il francese Henri Poincaré, alle cui opere e alle cui idee sia Einstein (direttamente) sia Picasso (indirettamente) hanno avuto accesso.

 

L’arte come elemento fondante dell’immaginario scientifico

L’arte come canale significativo della comunicazione della scienza. La proposta può sembrare una forzatura. In realtà è possibile dimostrare il ruolo primario che non solo la cultura estetica ma anche quella propriamente artistica assume nella costruzione dell’immaginario scientifico collettivo e individuale.

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Prendiamo il caso dell’arte letteraria. Secondo Katherine Hayles i rapporti tra scienza e letteratura si dipanano lungo tre fili: la retorica, con mutuo scambio di registri comunicativi; i concetti, con il reciproco scambio di temi, metafore e analogie; la cultura profonda, con ciò che Eugenio Montale definiva l’oscuro pellegrinaggio di idee feconde e di strumenti epistemologici che passano, incessantemente, dall’una all’altra e che ordiscono la matrice culturale in cui si muove ciascuno di noi.
Lo storico della fisica e del pensiero scientifico Gerald Holton ha chiamato themata gli oggetti di questo oscuro pellegrinaggio. E ha sostenuto, probabilmente a ragione, che lo scambio di questi strumenti epistemologici tra scienza e letteratura contribuisce a quel complesso e radicale riorientamento metaforico che nella scienza, come più in generale, nella cultura costituisce un «cambio di paradigma».
Consideriamo il caso del Sidereus nuncius, scritto da Galileo Galilei nel 1610, dopo le osservazioni col cannocchiale della superficie scabrosa della Luna, dei satelliti di Giove, delle stelle infinite effettuate nell’inverno tra il 1609 e il 1610. Ebbene all’inizio del Seicento, quel libro scientifico assume i caratteri di un fenomeno culturale di massa (uno dei primi).

Galileo Galilei, Sidereus Nuncius, La Luna

Galileo Galilei, Sidereus Nuncius, La Luna

«Evento sensazionale – commenta la storica Elizabeth Eisenstein – il Sidereus Nuncius non solo catapultò il suo autore nella posizione di celebrità internazionale, ma fece anche per l’astronomia ciò che i primi libelli di Lutero avevano fatto per la teologia: suscitò eccitazione letteraria e generò pubblicità di tipo nuovo». Insomma, contribuì, più di ogni altro libro prima, a rendere l’astronomia (e, di riflesso, la nuova scienza) una dimensione culturale di massa.
E come realizzò tutto questo? Sposando lo spirito dei tempi. Entrando in sintonia con l’imperativo barocco delle novità e della meraviglia a ogni costo: scoprite nuovi mondi o affogate, andava predicando agli uomini di lettere il poeta Gabriello Chiabrera.
Raffigurando il mondo ultralunare com’era il mondo terrestre, corruttibile e imperfetto; ricomponendo, quindi, l’unità fisica dell’universo; mostrando che esiste almeno un altro pianeta, Giove, intorno a cui ruotano delle lune e che quindi, per analogia, è possibile che il modello copernicano dell’universo non sia un artificio matematico ma una realtà fisica; dimostrando che in cielo ci sono molte più stelle fisse di quelle visibili ad occhio nudo, e che quindi l’universo non è chiuso e finito, come appare nella descrizione aristotelico-tolemaica, ma è appunto un universo enorme e forse infinito, Galileo propone novità «grandi invero».
Ma questa novità sono diffuse e diventano cultura di massa grazie anche all’azione che immediatamente svolgono poeti, letterati, pittori.

Cigoli, Assunzione, Santa Maria Maggiore in Roma

Cigoli, Assunzione, Santa Maria Maggiore in Roma

Ludovico Cardi da Cigoli, che è amico di Galileo, si lascia ispirare dai disegni del fisico fiorentino quando deve raffigurare la luna (con tanto di macchie, crateri e asperità) sotto l’immagine della Madonna nell’Assunzione della Vergine affrescata sotto la cupola della cappella paolina della chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma.
Adam Elsheimer raffigura il nuovo «cielo galileiano» quando dipinge la Fuga in Egitto, l’opera cui tiene di più, «con il naturalismo – scrive Andrea Battistini – fino allora inedito in pittura, dello sperimentatore avvezzo a scrutare il firmamento attraverso il cannocchiale».
D’altra parte Galileo stesso diventa punto di riferimento di una folta schiera di poeti e, insieme al suo annuncio, entra da protagonista in una serie ancora più fitta di poesie, alcune encomiastiche, come quelle, tra gli altri, di Giambattista Manso, Giovanni Battista Marino, Gabriello Chiabrera, Johannes Faber di Bamberg, Giuseppe Battista e John Milton nel suo Paradise Lost.
«Vicisti, Galileae!», scrive di getto lo scozzese Thomas Seggett in una poesia in latino citata nella Narratio de Jovis Satellitibus che Keplero scrive in onore di Galileo l’11 settembre del 1610. Da notare che sono passati meno di sette mesi dall’uscita del libro e già il Nuncius rimbalza più volte tra il mondo della scienza e quello dell’arte.
Non tutti sono, in realtà, cantori estatici dell’annuncio galileano. In preda all’angoscia, nel 1611, il poeta inglese John Donne scrive:

La nuova filosofia pone tutto in dubbio […]
Si sono persi il sole e la terra, né ingegno d’uomo
Può bene indirizzare dove cercarli […]
Tutto è in pezzi, ogni coerenza se n’è andata
Ogni supporto e ogni relazione.

John Donne

John Donne

Ma, al di là della natura delle emozioni che suscita, è certo che il Sidereus Nuncius colpisce non solo gli esperti, “filosofi e astronomi”, ma l’intera cultura di massa europea. Persino i numerologi si lasciarono ispirare dalla scoperta dei quattro pianeti medicei per tessere nuove reti di corrispondenze numeriche intorno al cosmo e all’essenza dell’uomo.
La diffusione dell’annuncio sidereo «con altri mezzi» viene rilanciata, interpretata, amplificata dai più svariati gruppi di intellettuali in quel Seicento barocco. Ed è questo, a ben vedere, che rende immediatamente cultura le osservazioni galileane, contribuendo rapidamente a costruire (o meglio, a ricostruire) un «immaginario scientifico» di massa mentre la scienza va ancora formandosi.
L’importanza, per la scienza, di questo processo è ben presente allo stesso Galileo: «Si concede anco al Poeta il seminare alcune scientifiche speculazioni».

Anche in tempi moderni questa utilizzo delle metafora artistica è comune. Pensiamo, per esempio, alla fotografia con cui Oliviero Toscani ci propone – a fini pubblicitari – una rappresentazione di un malato di Aids. Quanto ha contribuito questa immagine a rimodellare il nostro immaginario relativo a questa malattia infettiva?

Oliviero Toscani, Aids

Oliviero Toscani, Aids

D’altra parte l’immaginario intorno a un’altra specifica malattia, la follia, è stato continuamente stimolato, nel corso della storia, dalla sua rappresentazione artistica. Nella Nave dei folli dipinta da Hieronymus Bosch tra i 1490 e il 1500, cosa viene proposta se non la separazione dei folli dalla società. Separazione che nella società contadina non si verifica mai.

E, in tempi più recenti, non è stata forse la fotografia uno strumento potente di denuncia dell’esclusione dei folli dal resto della società operata dai manicomi? Nelle foto di Luciano d’Alessandro, per esempio, possiamo toccare con mano questo senso l’esclusione e l’isolamento del folle.
Dopo la legge Basaglia le barriere di comunicazione cadono. E la fotografia ancora una volta ci conferma che non è possibile distinguere, con chiarezza, ciò che è follia e ciò che non lo è.

 

L’arte nell’arcipelago della comunicazione della scienza.

Se teniamo conto di come l’arte contribuisce continuamente a (ri)costruire il nostro immaginario scientifico, dobbiamo prenderla, dunque, in gran considerazione quando parliamo di comunicazione pubblica della scienza. Una comunicazione che ha assunto un ruolo decisivo, oggi, sia per lo sviluppo della conoscenza scientifica, sia per lo sviluppo democratico della società.
Viviamo, infatti, in un periodo di transizione nel modo di lavorare degli scienziati. Dall’era accademica stiamo passando o siamo già passati nell’era post-accademica della scienza. Il passaggio sta comportando una revisione o una reinterpretazione di alcuni valori fondanti dell’attività scientifica.
Un carattere decisivo della transizione è questo: nell’epoca accademica le decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza venivano prese pressoché esclusivamente all’interno delle comunità scientifiche. In quelle che, non a caso, venivano chiamate torri d’avorio.
Nell’era post-accademica le decisioni rilevanti per lo sviluppo della conoscenza scientifica vengono prese in compartecipazione tra gli scienziati e una serie di pubblici di non esperti.
Siamo quindi passati da un mondo in cui scienza e società erano sostanzialmente separati, a un mondo in cui scienza e società sono fortemente interpenetrati. In questo quadro, il problema della comunicazione pubblica della scienza cambia fortemente. Se prima per lo sviluppo della scienza la comunicazione rilevante era solo e unicamente la comunicazione interna, la comunicazione tra scienziati, oggi è diventata rilevante anche la comunicazione della scienza che coinvolge i pubblici di non esperti.

Il problema riguarda da vicino noi tutti. Perché in questo medesimo periodo post-accademico la scienza è diventata sempre più una delle leve fondamentali della dinamica sociale: è la fonte di conoscenza cui attinge in modo sistematico tutta l’innovazione tecnologica. Oggi vediamo che le tematiche scientifiche attraversano trasversalmente la politica e la società. Negli Stati Uniti un collante della maggioranza politica che ha sostenuto le due Amministrazioni di George W. Bush è stata una precisa visione bioetica e, persino, una precisa visione (anti)scientifica: quella del creazionismo che si oppone alla teoria darwiniana dell’evoluzione biologica.
Noi tutti, in un modo o nell’altro, siamo chiamati ad assumere decisioni rilevanti su temi scientifici, i più svariati: dalle cellule staminali e dalla clonazione, al clima che cambia e al controllo delle nuove armi di distruzione di massa. Gli argomenti con una valenza scientifica sono, sempre più spesso, in testa all’agenda politica e sociale. D’altra parte è difficile interpretare il mondo contemporaneo senza avere la minima capacità d’interpretare l’evoluzione della scienza (e della tecnologia che alla scienza fa capo). Allora la comunicazione intorno a questi argomenti è diventata un problema rilevante non solo per gli scienziati, ma per l’intera società.
In sintesi, una società pienamente democratica oggi è una società che ha grande consapevolezza delle questioni scientifiche in campo e dei processi di comunicazione che le riguardano.

Venezia, il Ponte di Rialto

Venezia, il Ponte di Rialto

L’arte è uno degli strumenti principali scelti dall’uomo per interpretare la realtà e per comunicare. Per tutte le ragioni che abbiamo detto e altre ancora, nell’era post-accademica della scienza l’arte diventa uno dei canali principali attraverso cui si diffondono le «scientifiche speculazioni». È per questo motivo, dunque, che il rapporto tra scienza e arte, da sempre importante per lo sviluppo culturale della società, è diventato un elemento importante per lo sviluppo stesso della democrazia.