I nuovi valori: apparire è più che essere

La risorsa infinita. Capitolo 2

 

I nuovi valori: apparire è più che essere

Dalla preistoria al XX secolo

L’uomo è un animale sociale, che vive in comunità organizzate. Le dimensioni, le modalità organizzative, i collanti operativi e culturali dei nuclei sociali, le strategie di sopravvivenza, sono cambiati ed evoluti profondamente nel corso della storia.
Agli albori della civiltà, quando l’unica molla era quella della mera sopravvivenza, l’organizzazione sociale era rappresentata da bande nomadi costituite da un certo numero di unità familiari, le cui dimensioni erano determinate dal compromesso fra la capacità di difesa, e l’esigenza i procacciarsi il sostentamento, cui la comunità provvedeva cogliendo le opportunità spontaneamente offerte dall’ambiente; le attività prevalenti erano la caccia e la raccolta.

A questa primitiva fase della civiltà, fa seguito l’era della agricoltura e dell’allevamento. Le comunità umane si fanno stanziali, e organizzano le loro attività al fine di rendere meno aleatorie e incerte la disponibilità di risorse primarie ( cibo, ecc.) e le condizioni di vita ( sicurezza, qualità ambientale, ecc.). Alla mera raccolta di alimenti e prodotti che la Natura mette spontaneamente a disposizione si affianca, e via via si sostituisce, l’intervento sui fenomeni e sui processi naturali, atti a far sì che essi mettano a disposizione della comunità umana quanto serve alla sua sopravvivenza e alla sua prosperità.
A queste attività primarie, approfittando della stanzialità, si affiancano in questa era attività secondarie altamente funzionali a  una vita sicura e comoda: la realizzazione di abitazioni, edifici e città; l’accumulo e la conservazione, nei periodi di abbondanza, del sovrappiù, per far fronte alla necessità cui si andrà incontro nei periodi di scarsità e carestia; lo scambio di merci e il commercio.

Nel corso della sua storia, ogni comunità umana sviluppa conserva e tramanda, oltre a un patrimonio di beni materiali e strutture, anche un suo patrimonio culturale, fatto di  beni immateriali ma non per questo meno preziosi: conoscenze, saperi, valori, canoni estetici e morali, valori comuni e condivisi, ecc.: un patrimonio che ogni generazione consegnava alle successive, inizialmente per tradizione orale, e poi successivamente usando strumenti sempre più efficaci e complessi (scrittura, immagini, ecc.).
Questa evoluzione dei modi di vita, della organizzazione sociale, del patrimonio di beni materiali e immateriali, è avvenuta lentamente, nell’arco di millenni, di decine di millenni. Ciò che ogni generazione consegnava ai suoi posteri, non differiva che per dettagli da ciò che essa aveva ereditato dai suoi avi.

 

La moderna evoluzione della civiltà

E’ a partire dagli ultimi decenni dell’800, e poi nel corso del XX secolo, che il processo di evoluzione della civiltà ha subito una accelerazione brusca e prepotente. La causa principale è stata l’adozione sistematica – specie da parte dei paesi occidentali – del metodo scientifico come strumento di accrescimento delle conoscenze. Vere e proprie rivoluzioni culturali si sono succedute e accavallate; ogni generazione ha avuto modo di trasformare profondamente conoscenze, processi,valori, beni; consegnando ai propri figli e nipoti una civiltà e un mondo profondamente modificati rispetto a quelli che aveva ricevuto in eredità.
Grandi conquiste conoscitive organizzate ( la termodinamica, l’elettromagnetismo, la scienza dei materiali, le nanoscienze, ecc.), dense di rivoluzionarie conseguenze applicative ( i motori termici ed elettrici; l’elettronica; le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione,  le nanotecnologie, ecc.), hanno consegnato alla civiltà umana un enorme potenziale positivo in termini di capacità di produzione di una quantità crescente di beni, strumenti e servizi capaci di migliorare grandemente la qualità della vita; ma anche denso di pericoli, se usato senza il necessario discernimento.
Vale la pena ricordare alcuni momenti salienti di questo rapido e turbolento sviluppo:

  1. la cosiddetta rivoluzione industriale, basata sulla diffusione nel sistema produttivo di macchine capaci di affiancare l’uomo, moltiplicandone le capacità operative specie nei settori manufatturieri. Grazie a questa rivoluzione ( affiancata e potenziata dalla rivoluzione elettronica, che ha via via migliorato la capacità produttiva delle macchine dotandole di un cervello via via più sofisticato e potente) si è moltiplicata la capacità dei paesi industrializzati di produrre ricchezza e di migliorare la qualità della vita della umanità. Ogni famiglia, nel corso della prima metà del XX secolo, ha conquistato la concreta possibilità di disporre di una automobile, un frigorifero, una radio e poi un televisore, ecc. ecc. Nel contempo tuttavia, le leve del potere decisionale e i flussi del crescente valore aggiunto passavano di mano, lasciando la classe dei lavoratori  per concentrarsi nelle mani di chi possedeva i capitali che consentivano di provvedere e controllare i mezzi di produzione.
  2. la rivoluzione informatica e telematica, (ICT: Information and Communication Technology), grazie alla quale è esplosa vieppiù, di anno in anno, la capacità di produrre e diffondere in tempo reale una mole crescente di informazione, dando la possibilità concreta ad ogni cittadino di partecipare a questo banchetto immateriale, traendone nutrimento ed avendo la possibilità di contribuire ed arricchire l’offerta. Nello stesso tempo, offrendo agli attori economici più forti formidabili strumenti per orientare gusti e convinzioni della collettività, per farne strumento dei propri interessi economici, politici, culturali, ecc.
  3. la globalizzazione del mercato, resa possibile a sua volta dalla esplosione delle ICT. La possibilità di trasferire in tempo reale, in ogni angolo del mondo, informazioni, disposizioni e decisioni, consente di organizzare il sistema produttivo dislocandone, a seconda della convenienza , momenti e strutture in ogni parte del mondo. L’uniformità di gusti e bisogni,veicolata dalla capacità di scansione trasmesse dai mezzi di comunicazione di massa, trasforma il sistema produttivo in una formidabile macchina di produzione di ricchezza: ricchezza che trae origine da mille rivoli che procedono dalla periferia verso il centro, lasciando a chi è escluso o marginale solo le briciole necessarie per sopravvivere, e spesso nemmeno quelle.

Nei vari capitoli di questo libro, cercheremo di discutere in maniera sistematica alcuni degli aspetti del complesso scenario che abbiamo fin qui tratteggiato; comunicando con l’analisi, in questo capitolo, delle questioni relative alla scala dei valori.

 

Il valore d’uso

Una delle caratteristiche, fra le principali, che distinguono l’uomo dagli animali, è la sua capacità di costruire e usare oggetti, utensili e strumenti, il ricorso ai quali consente di amplificare e di affinare la sua capacità di agire. Un’altra caratteristica, è la sua capacità di sviluppare un sapere intersoggetivo, appartenente alla collettività; un sapere che si scambia fra soggetti diversi, e passa di generazione in generazione e ciò facendo, lungi dal deteriorarsi, si accresce vieppù.
Ma torniamo qui agli oggetti che prolungano e amplificano il “ saper fare “ e il “ saper apprendere” dell’uomo.

Portiamo per cominciare la nostra attenzione su una persona che viva in solitudine, alle prese con i problemi primari della sopravvivenza ( l’alimentazione; la difesa dagli elementi naturali e da eventuali attacchi di animali; ecc.): per fissare le idee, pensiamo a Robinson Crusoe, ritrovatosi dopo un naufragio, solo, su un’isola deserta. In queste condizioni, per quell’uomo il valore di un oggetto è misurato innanzitutto dalla sua utilità: preziosa è l’ascia, che consente di tagliare rami e costruire una capanna, e difendersi all’occasione da un animale; preziosa è una coperta, che permette di ripararsi dal freddo, e così via. Ma non è questo l’unico elemento che determina il valore. Se un oggetto è facilmente realizzabile – se è facile dunque procurarsene una copia – il suo valore è minore: posso, in questo caso, trattare con più leggerezza e meno cura l’oggetto che posseggo, nella consapevolezza che, se si rompe o si perde, posso procurarmene con relativa facilità un sostituto. Possiamo dire, schematizzando, che il valore dell’oggetto è misurato dal lavoro che è stato ed è necessario per costruirlo o procurarselo, e dall’utilità che quell’oggetto, una volta in mia mano, è destinato ad avere. E’ quello che si chiama il valore d’uso di quell’oggetto.

Per realizzare gli oggetti utili, l’uomo si avvale, per quanto può, dell’aiuto di madre natura. Un bastone, prima di essere tagliato e sagomato in funzione dell’uso che voglio farne, è cresciuto come parte di un albero che aveva pazientemente svolto, per anni, la funzione clorofilliana grazie alla quale anche quel ramo si è sviluppato. Anche il lavoro compiuto da madre natura contribuisce, in certa misura, a determinare il valore d’uso: se per esempio, per la funzionalità dell’oggetto, è necessario un ramo vecchio e stagionato, la riproduzione di quell’oggetto è più problematica rispetto al caso in cui serva un ramo che cresca in ogni dove in soli tre giorni.
Il valore d’uso è la categoria di valore dominante – o esclusiva – per quell’uomo per cui siano dominanti i problemi dell’esistenza; il valore d’uso appartiene, in altri termini, alla “cultura dell’essere” (o dell’economia primaria legata all’esistenza). Se invece che ritrovarsi solo su quell’isola, Robinson Crusoe fosse là scampato insieme a tutta la sua famiglia, la sua scala di valori non sarebbe molto diversa. L’economia dell’esistenza – in cui la scala di valori è dominata dal valore d’uso – è strettamente legata alla “ economia della riproduzione” (è, in certo senso, tutt’uno con essa).

Ora, immaginiamo che il nostro solitario naufrago abbia risolto tutti i suoi problemi di sopravvivenza, e possa dedicare parte del suo tempo a problemi meno pressanti, ad attività meno primarie. Avendo fra le mani un bastone, potrà essere stimolato a ricavarne, anziché un oggetto utile (o solamente utile), anche un oggetto bello, piacevole a vedersi; per esempio, un bastone intarsiato. Questo nuovo oggetto realizzato può avere – e avrà – per lui valore assai maggiore di un bastone parimenti utile, ma meno bello. Ciò non è dovuto, necessariamente, al passaggio da una categoria di valori a un’altra categoria; possiamo essere ancora entro la categoria del valore d’uso. Il valore d’uso del nuovo oggetto è maggiore perché la sua realizzazione ha richiesto una maggior quantità di lavoro (di lavoro, oltretutto, più qualitativo, che non tutti sarebbero in grado di compiere); e la sua utilità può essere considerata maggiore se,  nel contempo, superati i problemi di sopravvivenza, ci saremo venuti a trovare nelle condizioni di considerare utile non solo il soddisfacimento di esigenze  materiali e fisiche, ma anche di quelle intellettuali e immateriali (per esempio estetiche). La scala dei valori d’uso è dunque in certa misura dipendente dai canoni culturali ed esistenziali del soggetto della valutazione; e solo all’interno di convenzioni a proposito di tali canoni può essere oggettivata e quantificata.

Ma un uomo che vive solo – o insieme alla sua sola famiglia – su un’isola deserta, rappresenta un caso decisamente atipico: l’uomo è infatti un animale sociale, che vive in comunità. All’interno di una comunità, gli strumenti e gli utensili ( e più generalmente le cose) possono essere, e sono, non solo oggetto di produzione e d’uso, ma anche oggetto di scambio: accanto alle attività primarie della produzione, si sviluppano le attività secondarie del commercio ( e gli oggetti divengono così anche “merci”).

 

Il valore di scambio

Nelle sue forme più primitive, il commercio è basato sul baratto, ed è regolato dalla stessa scala di valori commisurata al valore d’uso: un cavallo vale due asini se è in grado di compiere da solo tanto lavoro quanto i due messi insieme; due pugnali valgono una spada se ciascuno dei due, per essere forgiato, richiede metà della materia e metà del lavoro; e così via. Ma il commercio è basato sul trasferimento e sull’immagazzinamento e sul trasporto, e conviene che per quanto possibile almeno uno degli oggetti di scambio sia maneggevole; che la scala di valori si materializzi in oggetti convenzionali che siano leggeri, trasportabili e conservabili facilmente e a lungo.

Nasce così il denaro, cioè una categoria di oggetti standard usati come controvalore negli scambi; oggetti il cui valore è del tutto convenzionale (valore di scambio), e basato in primo luogo sulla credibilità di chi lo detiene, ma soprattutto sulla garanzia (fornita dalla collettività e dalle leggi che ne regolano i comportamenti) che tale valore convenzionale verrà rispettato e fatto rispettare.  La credibilità del garante è basata sul fatto che esso possegga il controvalore del denaro circolante; il valore di scambio appartiene, in tal senso, alla “cultura dell’avere”.
Non è qui il luogo, né vi sono le competenze in chi scrive, per introdurre una discussione approfondita sul denaro; ciò che interessa è solo fare alcune osservazioni a proposito di linee di tendenza in atto nella presente fase storica.

Classicamente, il commercio si basa sulla catena merce – denaro – merce; lo scambio di denaro è cioè meramente strumentale a raggiungere efficacemente il fine ultimo, che è quello di scambiare merci. Benché basata sul valore di scambio ( il ”prezzo” delle merci, cioè il loro valore così come determinato dalle leggi del mercato, di equilibrio fra la domanda e l’offerta), questa catena si àncora anche al valore d’uso, poiché la merce che inizia la catena deve essere prodotta, e quella finale viene acquistata per essere usata; e sia la produzione che l’uso consentono di quantificare un valore d’uso. Lo stesso denaro, benché rappresenti un distillato del valore di scambio, è stato a lungo anch’esso ancorato a un uso intrinseco corrispondente valore d’uso tramite le riserve auree: l’oro (materiale raro, sostanzialmente inalterabile, lavorabile finemente, ecc.) ha infatti un suo proprio valore d’uso, non solo convenzionale, che resiste a svalutazioni della moneta, a guerre rivoluzioni inondazioni.

Oggi, il denaro è completamente dematerializzato, non è fatto più nemmeno di carta (che rappresentava, in sostanza, un contratto sottoscritto dall’istituto di emissione con cui esso garantiva di corrispondere, a richiesta, il relativo controvalore in termini di valore d’uso). Esso è ormai ridotto a impulsi elettronici, trasmessi da una carta di credito  e ricevuti da un computer, che viaggiano in tempo reale sulle reti telematiche, da un capo all’altro del mondo. Il valore è meramente valore convenzionale di scambio, sganciato da ogni residuo ancoraggio al valore d’uso; e basta una piccola perturbazione del valore convenzionale (per esempio, del valore di una moneta rispetto a quello di un’altra) per produrre  enormi guadagni a qualcuno,ed enormi perdite  a qualcun altro. Il commercio di denaro (basato sulla catena denaro – merce – denaro) non è una novità.

Ma nell’era della globalizzazione e della dematerializzazione, questo settore (quello dei mercati finanziari) assume un volume e un rilievo del tutto nuovi, in virtù della sua nuova scala spaziale (l’intero pianeta) e della rapidità dei relativi scambi (essi avvengono, in pratica, istantaneamente).
La merce è scomparsa dalla catena, e il mercato finanziario si riduce a un mero scambio di denaro (io ti do un dollaro, tu mi dai due marchi).

Per conseguenza della sua forte dipendenza da norme, convenzioni e accordi, il funzionamento del mercato finanziario, in cui oggetto della compravendita è il denaro stesso, è sottoposto a regole del tutto peculiari. I parametri decisivi che determinano il confine fra chi ci rimette e chi ci guadagna, sono l’accesso all’informazione, e la disponibilità di denaro: chi è in grado di sapere con mezz’ora di anticipo una notizia strategica, e di valutare gli effetti che tale notizia produrrà sulle quotazioni, è in condizioni di realizzare in pochi istanti guadagni colossali; e chi disponga di grandi riserve di denaro è in grado di far volgere a proprio vantaggio qualunque contrattazione. Conviene illustrare questa affermazione con un esempio classico tratto dalla teoria dei giochi. Un tale, morendo, lascia in eredità a due nipoti, parenti lontani fra loro, un certo patrimonio; con la clausola che l’eredità non possa essere toccata fino a che i due non si siano accordati fra di loro su come suddividersi il patrimonio. Su quale base  si accorderanno i due? A prima vista, parrebbe che il risultato della contrattazione debba essere che ognuno dei due si prenda la metà. Ma immaginiamo ora che uno dei due sia un poveraccio e l’altro ricco, tanto ricco  che l’eredità presenti per lui valore trascurabile. Non sarà allora, per lui, grave danno, la prospettiva  che la trattativa sia lunga, o addirittura inconcludente. L’altro, per il quale una frazione qualunque del patrimonio sia sufficiente a fargli cambiare in meglio la qualità di vita, è invece interessato a concludere in fretta, anche a costo di lasciare all’altro, purché si accordi, una frazione preponderante dei beni. Chi è già ricco  chiude la trattativa a proprio deciso vantaggio.
Per motivi siffatti, lo sviluppo dei mercati finanziari alla scala globale, si presenta anch’esso come un fenomeno tendente a restringere l’area della ricchezza.

 

Il valore simbolico e status symbol

Ma le due categorie di valori fin qui considerate (valore d’uso e valore di scambio), non esauriscono il panorama; vi è una terza categoria, connessa con la cultura dell’apparire.

Se un uomo possiede tutto ciò che gli serve, la sua vita può essere confortevole, sicura e tranquilla; il valore d’uso è, come abbiamo visto, funzionale all’essere.
Se un uomo può permettersi più di ciò che gli serve, è comunque per lui inutile, per esempio, possedere più oggetti d’uso di quanti sia in grado di utilizzare. Il valore d’uso non è funzionale all’accumulo. E’ meglio – per chi ha di più – investire in oro  e denaro: si potrà così contenere un grande valore in poco spazio, e in forma che non si deteriora, da un lato, e che può essere, dall’altro, facilmente scambiata con qualunque merce che di volta in volta serva. All’avere, al possedere, è funzionale il valore di scambio. Essere ricchi infatti, non significa possedere tutti i possibili oggetti: significa avere la potenzialità di possedere, volendo, tutto ciò che si desidera.

Chi è ricco, chi ha accumulato grande mole di valore di scambio, è anche potente: può, volendo, aiutare chi gli è amico e danneggiare chi gli è nemico; può acquistare il lavoro degli altri e usarlo per cambiare il mondo.
Ma per far ciò, per avere potere e prestigio, è necessario non solo possedere ricchezza, cioè valore di scambio accumulato; è necessario anche, quella ricchezza, mostrarla, affinché gli altri ne siano consapevoli. Ma fare vedere materialmente il proprio denaro e il proprio oro è complicato e pericoloso. E allora, funzionale a questa dimostrazione, è il far mostra di possedere oggetti inutili, costosi ed effimeri; è funzionale lo spreco.

Chi può permettersi il lusso di possedere e mostrare, ma ancor più dissipare e distruggere, oggetti inutili e costosi, dimostra così indirettamente di essere ricco e potente. Questi oggetti, il cui possesso e la cui dissipazione sono funzionali all’apparire, sono caricati di valore simbolico. Il valore simbolico è, per l’appunto, funzionale all’apparire, in vista del potere e del prestigio che ne consegue.
In molte civiltà primitive, i maggiorenti della tribù erano e sono soliti cimentarsi in periodiche gare, in cui è in gioco la conquista dei ruoli di prestigio e di governo della comunità. Sono gare di spreco: il vincitore è colui che, di fronte alla collettività, compie la distruzione di una quantità più grande di propri averi.
Anche la nostra civiltà fa largo uso di beni appariscenti, spesso inutili ed effimeri, ma costosi, il cui possesso (proprio in funzione della loro inutilità, della loro caducità, del loro alto prezzo) è simbolo di ricchezza, di prestigio e di potere (status symbol): sono abiti firmati,indossabili una volta sola, che poi passano di moda; sono Ferrari fiammanti, le cui prestazioni e il cui costo sono dieci volte superiori a quanto sia ragionevole e necessario; sono inutili gingilli tecnologici; e così via.

Ma ora, ricolleghiamo questa nostra apparente divagazione sui valori a quanto avevamo fin qui visto. Nell’ambito di quel grande processo di ristrutturazione della civiltà indotto dall’innovazione tecnologica che va sotto il nome di “globalizzazione dei mercati”, portiamo la nostra attenzione su alcuni fenomeni e alcune linee fra loro fortemente sinergici: l’automazione dei processi produttivi nel settore industriale; l’informatizzazione del settore dei servizi; la riorganizzazione integrata del sistema produttivo e commerciale, con fabbriche diffuse sul territorio e punti vendita che si concentrano in poli, fra loro connessi da interscambi organizzati resi possibili dalle tecnologie telematiche; lo sviluppo del mercato delle funzioni, e la dematerializzazione dei prodotti; lo sviluppo dei mercati finanziari, con la possibilità di trasferire in tempo reale, alla scala planetaria, flussi di valore aggiunto e di ricchezza.

Sono tutti fenomeni che tendono a concentrare i profitti, a sterilizzare le fonti distribuite di reddito, a restringere l’area geografica e sociale del benessere. Abbiamo anche accennato ad alcune delle molteplici negative conseguenze che questi fenomeni inducono sulla qualità della vita dei singoli e della collettività.

 

Il nuovo imperativo: l’accelerazione dei consumi

Orbene, questi stessi fenomeni tendono a produrre negative conseguenze anche sullo stesso buon funzionamento del sistema economico complessivo, e della macchina progettata e fatta funzionare per produrre profitto. Storicamente, infatti, gli investimenti produttivi comportavano che, automaticamente, un incremento del numero di addetti, e dunque l’allargamento dell’area geografica e degli strati sociali su cui si irradiava il “benessere” trainato dal processo di sviluppo; ciò anche grazie alla funzione di regolazione e distribuzione dei flussi di profitto, e di erogazione di servizi sociali, da parte dello Stato Liberale Illuminato, il cosiddetto ” welfare state”.

Grazie a questo fenomeno, l’aumento della capacità produttiva induceva esso stesso un aumento della domanda. Ma oggi questo circolo virtuoso si è inceppato: l’aumento della capacità produttiva si accompagna a un restringimento, anziché un allargamento, dell’area della ricchezza;  a una diminuzione, anziché un aumento, del numero di soggetti su cui si riverberano i riflessi economici del processo di sviluppo. Per conseguenza, il numero di compratori diminuisce, anziché aumentare. Il problema non è più produrre; il problema prioritario, pressante,diviene vendere. Come risolverlo? La risposta più ovvia è, naturalmente, la seguente: se l’area della ricchezza si restringe; se il numero di compratori diminuisce, ma se ciascuno di essi dispone di risorse economiche crescenti; cerchiamo di fare in modo che quei pochi comprino di più.

Storicamente, il mercato si allargava ( la domanda aumentava ) perché esso andava conquistando nuove aree (nuove regioni,nuovi ceti, ecc.); schematizzando, possiamo dire che il mercato si allargava espandendosi secondo il parametro spazio. Poiché ora l’allargamento spaziale non c’è più, l’attenzione si sposta sul parametro tempo: affinché quei pochi dotati delle necessarie disponibilità comprino sempre di più, è necessario che essi comprino sempre più spesso; è necessario accelerare i consumi.

 

L’economia degli status symbol. Apparire per essere

Con ciò, ci ricolleghiamo alle nostre considerazioni sulla scala dei valori. Come abbiamo visto, il valore d’uso (funzionale all’ essere, allo star bene, alla qualità della  vita) non si adatta alle ridondanze; è difficile far leva su di esso per accelerare i consumi. Si può pensare di realizzare oggetti d’uso costruiti in modo da avere vita breve, così da accelerare il loro ricambio; ma è un’arma a doppio taglio, perché un oggetto che si rompe e dura poco è cattiva pubblicità per il costruttore. Una possibile strada da percorrere è quella di inventare in continuazione nuove risposte ai vecchi bisogni, e nuovi bisogni cui dare risposta.

Parallelamente all’impegno della ricerca scientifica nella direzione di sviluppare  le tecnologie necessarie all’innovazione e all’automazione dei processi produttivi e dei servizi, un settore importante della ricerca viene così finalizzato alla continua innovazione dei prodotti che spesso sono ridotti  a oggetti d’uso e di consumo finalizzati a dar risposta a bisogni ridondanti, o addirittura del tutto inventati. Ma ciò non basta, non è sufficiente inventare in continuazione nuovi prodotti: è anche necessario convincere i potenziali acquirenti ad acquistarli veramente, a considerare quei bisogni degni di risposta.

Niente è più funzionale a ciò che l’elevare i nuovi prodotti e le nuove funzioni a livello di status symbol, caricandoli di un elevato valore simbolico, nello schema di riferimenti delineato più sopra: l’elevato valore simbolico non solo infatti stimolerà all’acquisto, ma anche al rapido consumo – allo spreco – di quei prodotti; ai quali basterà cambiare l’aspetto esteriore per renderli obsoleti (“fuori moda”) imponendo così il ricambio a chi affidi a essi l’immagine del proprio stato. La propaganda viene fatta con l’imponente dispiego di un sistema di mass – media sempre più martellante, che col potere di persuasione e la capillarità di penetrazione, resi a loro volta possibili dalle nuove tecnologie informatiche e telematiche, diffonde e inculca  le nuove scale di valori: un processo che ha la portata di una vera e propria rivoluzione culturale (o anticulturale) che smantella le scale di valori ancorate alla cultura dell’essere, per sostituirle  con nuove scale di valori funzionali all’apparire.

Veniamo continuamente e sistematicamente stimolati ed educati, fin da piccoli, a desiderare, e poi acquistare e consumare, prodotti e merci che ci vengono presentati come miracolosi portatori di lusinghe e stimolatori di invidie, con effetti garantiti e validati  dai crismi della scienza e dalla potenza della tecnologia; mentre i prodotti e i saperi funzionali all’essere vengono svalutati e liquidati come polverosi residui di un passato ormai definitivamente superato, e tutto da dimenticare.  Per parte sua la produzione, al cui sevizio lavorano scienza e tecnologia, viene indirizzata verso lo sviluppo di invenzioni perennemente nuove funzionali alla cultura dell’apparire il cui mercato perennemente si rinnova, svincolato da qualunque pericolo di stagnazione, distogliendo attenzione e interesse dai prodotti funzionali all’essere (dai valori d’uso) il cui mercato soffre della fastidiosa caratteristica di giungere presto a saturazione, una volta che i bisogni oggettivi siano stati soddisfatti. Ogni più stravagante desiderio di apparire trova risposta da parte dell’offerta, che lascia invece senza risposta molta della potenziale domanda – che pure se sistematicamente disincentiva, permane nel profondo – nei confronti di beni e funzioni funzionali all’essere, allo star bene, alla qualità della vita.

Si può pensare che nelle pieghe di tanta abbondanza, e ricchezza di prodotti, anche i problemi e le esigenze dell’essere trovino risposta e soddisfazione; ma non è così. Ciò è vero, in parte, per quella minoranza (poche regioni, pochi ceti sociali) su cui quell’abbondanza realmente si riversa. Non vale certamente per la grande maggioranza dell’umanità, che di quella abbondanza intravede soltanto, al più, il miraggio, e nel frattempo muore sovente di fame.

Non vale per i popoli e le regioni arretrate, non toccati dallo sviluppo, e anzi spesso depredati  (tramite la rapina delle risorse, e tramite gli interessi maturati per gli indebitamenti), da parte dei paesi sviluppati e potenti; spesso privati anche della speranza, perché quando per avventura maturino le condizioni per poter pensare a uno sviluppo possibile, tutte le risorse ( di progetto e di lavoro, nonché quelle economiche) vengono irresistibilmente attratte dalle lusinghe che emanano dai paesi ricchi che rappresentano sé stessi e la propria filosofia di vita come il paradiso di ogni beatitudine:cosicché quelle risorse, anziché venir rivolte alla soluzione dei problemi dell’essere, vengono dilapidate in un’orgia di apparenza, stimolando un’economia precaria e ingiusta, esposta al pericolo di appropriazione da parte della criminalità organizzata, o addirittura da questa organicamente controllata. Ciò vale soprattutto per i paesi che affacciano sul Mediterraneo, e che così confinano con l’Europa sviluppata, e in particolare con l’Italia e con il nostro Mezzogiorno.

Non trovano risposta, i problemi e le esigenze dell’essere, per molti di quanti vivono nei paesi industrializzati e ricchi: non per un operaio, il cui salario è confrontabile col canone di un telefonino; non per un disoccupato, privato del diritto al sostentamento, e a uno status sociale accettabile e accettato; non per la maggior parte dei giovani, che devono attendere spesso di essere uomini maturi  prima di conquistarsi l’indipendenza, e condizioni per poter avere una famiglia propria.

Ma non trovano risposta, i problemi e le esigenze dell’essere –  o trovano risposta parziale e insoddisfacente – anche per i più ricchi e fortunati fra quanti vivono nei paesi più ricchi e fortunati. Per conseguenza di quegli stessi fenomeni che abbiamo descritto e discusso nell’ambito del processo di globalizzazione, si determinano infatti condizioni generali tali da rendere difficile, anche per chi è ricco e potente, scavarsi una nicchia di benessere. La invivibilità delle città, in cui si concentrano tensioni sociali, consumi esagerati di risorse, intasamenti provocati dall’addensarsi di tecnologie, degrado ambientale, dissipazione dei saperi. Sono tutti fenomeni che pregiudicano irrimediabilmente la qualità della vita. Fenomeni la cui soluzione richiederebbe l’impegno  delle migliori risorse che la nostra civiltà è in grado di mettere in campo; risorse che invece sono tutte impegnate a inventare nuove risposte all’esigenza di apparire, e ciò facendo, quei problemi, li aggravano anziché risolverli.

A giudicare dai risultati – e da cosa altro, se non dai risultati, dovremmo giudicare? – la nostra civiltà della scienza, della tecnologia, della comunicazione e della telematica appare davvero paradossale e stravagante. Essa è senza dubbio la più potente e ricca fra le civiltà mai apparse nella storia dell’umanità:  dispone di enorme capacità di lavoro, quella sviluppata dalle sue macchine,  spesso “pensanti” (i suoi “schiavi meccanici”); utilizza a man bassa risorse naturali e no; è in grado di intervenire sui fenomeni naturali e sul territorio fino a modificarlo profondamente a proprio piacimento. Ma tutto questo potere lo sperpera nelle direzioni più effimere, lasciando senza risposta i problemi  e le esigenze più fondamentali della maggioranza della sua gente.

Un grande ingegnere era famoso per le sue ardite realizzazioni:erano suoi i grattacieli più alti, i più lunghi ponti sospesi, le più profonde gallerie. Un giorno disse: con la mia nuova realizzazione voglio davvero strabiliare il mondo, e passare alla storia. Costruirò il più alto dei grattacieli: ma anziché cominciare dalle fondamenta, comincerò dal tetto; a questo appenderò l’ultimo piano, e così via a scendere, fino alle fondamenta;e forse infine, tramite quelle fondamenta, sarà il mio grattacielo a sostenere il mondo. Naturalmente quell’ingegnere, in un eccesso di megalomania, era diventato matto.
La nostra civiltà pretende di affrontare i problemi dell’essere – del benessere, della qualità della vita – cominciando a risolvere quelli dell’apparire, a ciò dedicando tutte le sue migliori risorse: non saremo anche noi sulla via della follia?