Tutti i colori dell’Arcocibo

Dai chilometri ai minuti

“Sai tu la terra dove fioriscono i limoni,/gli aranci dorati rilucono fra le foglie scure,/una mite brezza spira dal cielo azzurro,/il mirto immoto resta e alto si erge l’alloro,/La conosci tu, forse ?” (per la precisione e per qualche germanofilo: Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn,/Im dunkeln Laub die Gold-Orangen glühn,/Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,/Die Myrte still und hoch der Lorbeer steht?/Kennst du es wohl?)
Quella terra era ed è la Sicilia nella fedele immagine di Goethe che non è mai troppo ricordare nell’anno che celebra il duecentesimo anniversario della pubblicazione del suo celebre Viaggio in Italia.
Molti sanno che si tratta della Sicilia e molti sanno che, Goethe a parte, dalla penisola sorrentina alla Sicilia fra limoni, arance e cedri c’è di che compiacersi e rallegrarsi.

Molti lo sanno. Certamente non i titolari di un supermercato napoletano che vendono limoni provenienti dall’Argentina.
Con buona pace della dieta mediterranea e dei chilometri zero che, non solo nel caso degli agrumi, possono ridursi a poche centinaia di metri quando non addirittura a “minuti zero” quando si può scendere nel proprio o vicino orto o giardino per cogliere quello e quanto serve da portare in tavola.
Sia il riferimento al chilometraggio, sia la dieta e le diete in genere sono, comunque, uno spunto per riflettere sull’alimentazione. Soprattutto sul modo in cui farla  correttamente per stare bene in salute.

In questo, naturalmente, incide notevolmente l’informazione. Informazione che, ormai da tempo, sui quotidiani nelle settimanali pagine dedicate a salute e medicina oltre che in articoli periodicamente dedicati all’argomento; in programmi radiofonici e televisivi anch’essi dedicati a questi problemi, ci informa soprattutto sul modo in cui, alimentandoci correttamente, possiamo dare un importante contributo alla prevenzione delle malattie tumorali. E non solo.
Bene. Volendo sintetizzare e solo apparentemente banalizzare, mi pare si possa notare che il messaggio che viene veicolato con questi strumenti riguarda la qualità, la quantità, il colore. Ci dice, cioè, che è utile mangiare frutta e verdura, è importante farlo cinque volte al giorno, è conveniente anche scegliere i colori.
Quest’ultima raccomandazione è certamente quella che desta maggiori curiosità e perplessità e vale la pena dedicarvi un’ulteriore riflessione.

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L’arcocibo

Riepilogando, la domanda ricorrente può essere: “Mangiare frutta e verdura tutti i giorni preserva la nostra salute, ma quanta ne dobbiamo consumare?” e la risposta è che i ricercatori che studiano questi problemi e ne danno le soluzioni hanno fissato una “dose minima” che riduce il rischio di sviluppare tumori, patologie cardiache e coronariche, diabete e altre patologie, in cinque porzioni al giorno.
Il CESVI, la nota ONG il cui acronimo sta per Cooperazione e Sviluppo, in una delle ricorrenti richieste di aiuto, chiede un contributo per la lotta alla crisi di alimentazione di bambini somali perché “un bambino che non mangia è un bambino destinato a morire…” e riferisce le parole strazianti di una madre che corre il rischio di perdere tre figli morti per fame. Come non mandare questo contributo e come non farlo sapendo bene che il problema non è la mancanza di alimenti, ma di soldi per comprarli? Nel mandare questa richiesta, a me come a tanti altri sui quali sa “di poter contare”, il CESVI aggiunge “un piccolo dono che abbiamo pensato per te”. Si tratta della “piramide alimentare, una guida sulla sana alimentazione, per aiutarti a mangiare bene ogni giorno”. L’invito che segue è quello di appendere in cucina questo “piccolo dono”, di seguire i “preziosi consigli in essa contenuti e aiutare a difendere il diritto al cibo di tanti bambini affamati”.

Questo invito può essere letto in vari modi. Provo a scegliere quello che considero il migliore. L’invito, cioè a confrontare l’enorme differenza tra me e tanti altri che avendo da sempre risolto il problema del cibo quotidiano, possono ora tranquillamente passare alla fase della quantità, qualità e colore che consentano anche un avanzamento nella prevenzione di malattie. Tra me, dicevo, e quelli che, una volta risolti i problemi di metter un piatto in tavola ogni giorno, non stanno mica a sottilizzare tra la quantità di frutta e verdura e dei vari colori dell’Arcocibo, E tralascio ogni giudizio su vegani eccetera.

Comunque bisogna obiettivamente riconoscere che là dove si cerca di rispettare al massimo il rapporto tra alimentazione e salute non pochi restano perplessi, sorridono e tendono a trascurare la scelta dei colori. Eppure l’indicazione che indirizza in questa direzione è supportata scientificamente. Per esempio dall’America’s Phytonutrient Report che dal 2009, suggerisce di portare in tavola ogni giorno frutta e verdura scegliendola in modo da non farsi mancare i 5 colori-base (bianco, giallo-arancio, rosso, verde, blu-viola) perché ciò aiuta il sistema immunitario a funzionare meglio. Il motivo è che i fitonutrienti che si trovano nei vegetali cambiano a seconda del colore di frutta e verdura: dal rosso di pomodori, radicchio, melograni e lamponi arriva ad esempio il licopene; dal giallo-arancio di carote, patate dolci e ananas si prendono beta-carotene e luteina. Il problema, dunque, secondo questo rapporto, è che molti non “colorano” abbastanza la propria dieta: otto su dieci, almeno negli Stati Uniti, non introducono fitonutrienti a sufficienza proprio perché non mangiano abbastanza colorato.

In Italia, grazie alla tradizionale dieta mediterranea, le cose vanno un po’ meglio. Qui la campagna sui “cinque colori per la vita” ideata nel 2005 da Carlo Cannella, direttore dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione suggerisce che “Mangiare ogni giorno una porzione di frutta e verdura per ognuno dei 5 colori è una delle basi per una corretta educazione alimentare, perché aiuta a introdurre nutrienti utili e protettivi per la salute”.

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Ma quanto e dove si mangia? C’è cibo per tutti?

“Diminuisce la fame nel mondo, ma 805 milioni di persone sono ancora cronicamente sottoalimentate”. Questo ci dicono i rapporti delle Nazioni Unite ed è un dato che sta a significare che negli ultimi anni il numero di persone che soffrono la fame è diminuito di oltre 100 milioni.
Ma sono, comunque, tante e mi sembra inaccettabile che questo dato si ritenga significativo di un trend positivo. Anche perché malgrado la crescita ancora sostenuta della popolazione terrestre e le evidenti contrapposizioni tra quantità di popolazione sovra nutrita e quantità sotto alimentata, molti ritengono che la Terra potrebbe nutrire anche più persone di quante (oltre 7,5 miliardi) oggi la popolano.  Quindi c’è soprattutto un più evidente problema di difficile accesso all’acquisto di cibo. Di più, soprattutto nei Paesi del primo mondo, il problema non è quello della quantità, ma della qualità del cibo e dei modelli di produzione alimentare.

Le due contrapposte posizioni richiedono ulteriori riflessioni. Anche perché se è vero che il problema è soprattutto il costo del cibo e anche vero che, sia pur a livelli decrescenti, la popolazione mondiale aumenta e quindi aumenta la domanda di cibo. Non solo. Perché migliorando, comunque e in modo abbastanza diffuso su tutta la Terra, la qualità della vita si va anche diversificando la domanda orientandosi verso prodotti indipendenti anche dai modelli alimentari propri dei Paesi nei quali viene alimentata. Secondo Jonathan Foley (Cinque azioni per nutrire il mondo “National Geographic” maggio 2014) “la diffusione del benessere nel mondo, soprattutto in Cina e in India, fa aumentare la domanda di carne, uova e latticini e, di conseguenza, la necessità di coltivare granturco e soia per nutrire un numero sempre maggiore di bovini, polli e maiali” per cui, sostiene questo direttore dell’Institute on the Environment dell’Università del Minnesota,  se la tendenza non dovesse cambiare, il duplice problema della crescita demografica e della dieta più ricca renderà necessario raddoppiare la quantità dei raccolti entro il 2050.

Il che, tra l’altro, renderà ancora più negativamente impattante il ruolo dell’agricoltura che già oggi è tra i maggiori responsabili dell’emissione di gas serra (metano e anidride carbonica soprattutto) ed è il maggiore consumatore di acqua che contribuisce anche ad inquinare scaricando in fiumi e laghi fertilizzanti e letame.
Allora il quesito principale diventa: “Come si può incrementare la produzione alimentare e come si può fare avendo a disposizione meno suolo agricolo e meno gente che vi lavora?”
Se la risposta dovesse essere che il risultato si può ottenere con più chimica e più tecnologia l’impatto ambientale e la perdita di biodiversità che ne deriverebbe assumerebbe dimensioni molto preoccupanti per le generazioni future.
Qualche riferimento quantitativo è utile per riflettere sulle precise dimensioni del problema.

Oggi sulla Terra si producono circa 2 miliardi di tonnellate di cereali, che, insieme con gli altri prodotti essenziali per l’alimentazione (oli, zuccheri, carne latticini) forniscono, mediamente, per ogni abitante  2.700 calorie. Mediamente significa, come è noto, che il dato è il risultato di due situazioni ai cui poli estremi sono la sovra alimentazione e la sotto alimentazione. E, infatti, nei Paesi del primo mondo economicamente più sviluppato le diete alimentari raggiungono anche 5.000 calorie al giorno (con buona pace dei colori di cui dicevo); mentre all’altro estremo, circa un miliardo di persone non raggiunge le 2.000 calorie.
Ma cibo ce n’è ancora sufficiente e ce ne sarebbe ancora per una popolazione che cresce se all’agricoltura non si sottraesse suolo e se quello che c’è venisse utilizzato al meglio. È, questo, un motivo di seria preoccupazione o, comunque, uno dei più preoccupanti. Il fenomeno è dovuto essenzialmente all’inurbamento e alla conseguente urbanizzazione che sono l’altra caratteristica della popolazione mondiale e della tendenza a vivere sempre più numerosi in città. E la cementificazione dello spazio sottratto all’agricoltura oltre a ridurre il suolo agricolo provoca anche la continua riduzione della biodiversità naturale.

Ma a chi tocca avviare il raggiungimento di questi obiettivi?
Come è stato notato da Carlo Petrini fondatore di Slow Food,  nessun protocollo d’intesa o di obiettivi potrà modificare un sistema alimentare responsabile della malnutrizione di un miliardo di persone. Né potrà contrastare l’attacco alla biodiversità realizzato anche tramite la “biopirateria” di cui ha scritto Vandana Shiva. (Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni. CUEN, Napoli 1999). Il cambiamento potrà avvenire solo con la mobilitazione in ogni angolo della Terra di grandi masse di popolazione che, scegliendo comportamenti da cittadini attivi piuttosto che da consumatori passivi, potranno anche sostenere i contadini delle loro terre e l’agricoltura locale.

Puntando e facendo in modo che si punti sempre più su un’agricoltura in grado anche, di creare posti di lavoro in questo lungo periodo nel quale le occasioni e i posti di lavoro tendono a contrarsi.  Ma quando si parla di crescita pochissimi ricordano il ruolo dell’agricoltura.
A questo lavoro va data dignità riconoscendogli non solo il valore di produttori agricoli, ma anche quello di custodi e manutentori del territorio. Che tende a ulteriormente impoverirsi ed esporsi al rischio di dissesto in seguito al progressivo abbandono.
La valutazione è che se si vincesse  la battaglia planetaria contro lo spreco di cibo che vale 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti si avrebbe a disposizione quattro volte quanto basterebbe a nutrire gli affamati a livello globale.

 

Cibo, gusto e salute

Tuttavia il cibo, il cibarsi, è sempre stato anche un motivo di piacere. Di soddisfazione del palato, per così dire. La sacrosanta quanto esasperata tendenza ad esaltare il rapporto tra cibo e salute ha indotto a guardare con preoccupazione al rapporto cibo-gusto-piacere considerandolo un modo quasi pericoloso di intaccare la qualità della salute e, di conseguenza, della vita.
Mi sembra un modo squilibrato di affrontare il problema. Soprattutto in un Paese come l’Italia che sede, com’è, di quel modo di nutrirsi con piacere e giovamento che si chiama “dieta mediterranea” ne ha fatto un modello di comportamento tale da essere riconosciuta dall’Unesco come “patrimonio dell’umanità”.
Di un’umanità che desidera di stare bene, naturalmente, e di non farsi del male.

Un farmaco chiamato Mediterraneo titolava “la repubblica” il suo settimanale inserto RSalute (27 settembre 2016) per dire che ”Non solo prevenzione. Per la prima volta gli scienziati dimostrano che la dieta made in Italy cura il diabete, ripara i vasi del sangue e può salvare la vita a milioni di malati. Ecco come”.
E il come si spiega nelle due pagine seguenti dove il titolo Spaghetti, pesce e insalatina il diabete è Ko è preceduto da un “occhiello” che spiega tutto: “La dieta mediterranea è così potente che può riparare i vasi sanguigni danneggiati dalla malattia. A beneficio di cuore e reni. Nuovi studi lo dimostrano. Così il menu diventa una ricetta medica”. E una ricetta nella quale lo stare bene si può sposare felicemente col mangiare di gusto.

Forse a qualcuno leggendo il titolo che prima richiamavo, non sarà sfuggito un richiamo a Fred Buongusto (nomina sunt conseguentia rerum, mi riferisco a quel Buon-gusto) e alla sua “Spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè”. E si noterà che il pollo che è carne bianca, ma sempre carne, è stato sostituito con il pesce. Che, obiettivamente, fa anche bene. Specialmente se azzurro, tanto per restare nell’ arcocibo e non viene dall’Argentina, tanto per tornare da dove ho cominciato.