Le vite parallele di Newton e Leibniz*
|La polemica che ha visto opposti Newton e Leibniz, per la paternità del calcolo infinitesimale, occupa tra le dispute scientifiche un posto di singolare rilievo; vuoi per la levatura dei personaggi coinvolti, vuoi per l’asprezza della polemica, ma soprattutto per il conteso storico assolutamente unico e per la posta in gioco. Si tratta, infatti, di una disputa nata non a sostegno o a detrazione di una teoria scientifica, ma di una polemica cresciuta nel tempo, sino ad assumere i contorni di una vera e propria guerra tra opposte fazioni, per attribuire la giusta paternità ad uno dei monumenti della creatività umana.
Il contesto storico
Isaac Newton (1643-1727) e Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) hanno avuto retroterra familiare, formazione, carattere e carriera profondamente diverse, pur con alcuni tratti di sorprendente somiglianza che li rendono vicini più di quanto possa apparire ad una lettura superficiale. Primo tra tutti il contesto storico in cui sono vissuti.
Newton nacque, secondo il calendario giuliano, la notte di Natale del 1642 (4 gennaio 1643 secondo il calendario gregoriano riformato), a Woolsthorpe, nei pressi di Grantham nel Lincolnshire, in una famiglia di piccoli proprietari terrieri.
Fu questo, per l’Inghilterra, un periodo estremamente travagliato e di rapide trasformazioni. Due anni prima della nascita di Newton scoppiò la guerra civile che vide opposti i sostenitori di Carlo I Stuart ai sostenitori del Parlamento, culmine di uno scontro strisciante che durava da decenni.
Come è noto la figura politica forte, emersa da questo periodo buio, fu quella di Oliver Cromwell. La sconfitta di Carlo I, la sua condanna a morte e successiva esecuzione furono ben lungi dal porre fine al periodo di disordini e incertezze. Tra spinte riformatrici delle sette puritane, tentazioni repubblicane e tentativi di restaurazione della monarchia, i decenni centrali del XVII secolo furono caratterizzati in Inghilterra da instabilità politica, da violenze e dalla politica fortemente autoritaria di Cromwell – divenuto Lord Protettore del Commonwealth e del Protettorato di Inghilterra, Scozia e Irlanda – per concludersi con la restaurazione della monarchia e l’incoronazione di Carlo II nel 1661.
Carlo II e il successore Giacomo II furono tanto malaccorti da perseguire una politica di aperta ostilità nei confronti del Parlamento, come già fece Carlo I. Le conseguenze furono la Seconda Rivoluzione del 1689, passata alla storia come Gloriosa Rivoluzione, e la cacciata di Giacomo.
Il punto di svolta fu rappresentato dall’incoronazione a Re di Inghilterra, Scozia e Irlanda di Guglielmo d’Orange, Statolder delle Provincie Unite d’Olanda e genero e nipote di Giacomo II.
Il suo regno segnò l’inizio di una fase di normalizzazione, che portò l’Inghilterra verso il sistema parlamentare ancora oggi in vigore. L’opera di democratizzazione venne proseguita dal successore di Guglielmo, la regina Anna, prima sovrana del Regno di Gran Bretagna.
Se i primi cinquant’anni della vita di Newton furono segnati da guerre civili, di religione, dalla crisi economica perdurante e da una forte instabilità, i decenni successivi rappresentarono per la Corona inglese e per i suoi sudditi anni di prosperità, di stabilità politica e sociale e di crescita culturale.
La metà del Seicento fu un periodo travagliato per l’Inghilterra, ma certamente sul Continente le cose non andarono meglio. Due anni dopo la nascita di Leibniz venne firmata la pace di Westfalia che sancì la fine della Guerra dei Trent’anni e la fine, di fatto, dell’egemonia tedesca in Europa. Il Continente percorso per decenni da eserciti mercenari e da truppe di ogni risma e nazionalità, devastato da una serie di violente epidemie e percorso da fremiti religiosi era, alla metà del secolo, in ginocchio. Furono lesti ad inserirsi nel vuoto politico lasciato dagli stati rinascimentali, i nuovi soggetti geopolitici ovvero gli stati nazionali, primi tra tutti la Francia di Luigi XIII, genialmente governata dal cardinal Mazzarino, e lo Stato delle Provincie Unite d’Olanda.
Leibniz nacque a Lipsia in una famiglia colta e piuttosto in vista – il padre Friedrich fu professore di morale e giurisprudenza presso la locale università – ma di mezzi economici assai modesti.
Come Newton, nato orfano di padre, anche Leibniz perdette il padre in giovanissima età e venne cresciuto dalla madre, in un contesto di rigore morale e religioso, ma permeato da amore per la cultura e tutto sommato piuttosto incline all’apertura verso il nuovo.
Il clima di instabilità e incertezza politica pesò non poco nella vita di Leibniz, costringendolo, per poter sbarcare il lunario e sopravvivere, a porsi sotto la protezione di vari principi tedeschi (primo tra tutti, in ordine di tempo, Giovanni Filippo di Schönborn Grande Elettore di Magonza) e ponendolo in condizioni di precarietà economica sino alla morte.
Il contesto culturale
Come sostiene lo storico della scienza Rupert Hall, è impossibile comprendere la virulenza della polemica tra Leibniz e Newton, se non si tiene conto del conteso culturale e della condizione degli uomini di scienza nel XVII secolo.
Nel sentire degli intellettuali del tempo fu del tutto assente la dimensione sociale del lavoro scientifico e la scoperta non venne mai colta come impresa collettiva, anche quando in effetti lo era. La scoperta venne sempre intesa come proprietà personale e individuale. Per citare Hall […] “Una conquista in campo erudito, scientifico, matematico o medico, era un bene commerciabile, una proprietà del tutto personale: il riconoscimento che ne derivava poteva essere il primo passo verso il conseguimento di un vescovato o di una carica statale […] al tempo di Newton e Leibniz, ciò che più contava non era l’opinione dei propri pari ma l’impressione diretta che si faceva su principi e ministri, prelati e magnati, i quali esercitavano una pressione enorme sulle nomine”.
Ci è impossibile non ricordare le sfide matematiche tra Cardano e Tartaglia, i duelli di Tycho Brahe o il duello alla spada tra gli eminenti medici inglesi John Woodward (membro della Royal Society) e Richard Mead, entrambi coevi di Newton. Memorabile la polemica condotta in fil di penna da Jonathan Swift, l’autore dei Viaggi di Gulliver, contro la Royal Society e i suoi membri, in difesa di una supposta purezza del sapere degli antichi.
Si trattava di lotte spesso finalizzate alla pura sopravvivenza personale, perché se è vero che la posizione sociale dell’intellettuale sul Continente era assai precaria, non deve trarre in inganno la situazione dei letterati e scienziati inglesi. Il fatto che molti di essi facessero parte del personale docente di celebri college, non può far dimenticare che le nomine soffrivano di un grado di arbitrarietà e di aleatorietà per noi oggi inconcepibile.
In un quadro di questo tipo si riesce a comprendere il senso della polemica tra Newton e Leibniz.
La genesi della polemica
Il limitato spazio dell’articolo non consente di entrare nel vivo dei tecnicismi e dei concetti che hanno portato Newton e Leibniz alla nascita del calcolo sublime. Ma almeno per sommi capi proviamo a delineare il percorso seguito da questi due giganti.
Era l’agosto del 1684 quando un trepidante e giovane Edmond Halley (scopritore nel 1682 della periodicità della cometa che porta il suo nome) fece visita a Newton, nelle stanze che questi occupava in qualità di professore lucasiano a Cambridge. Newton al tempo era noto solo tra gli specialisti, tanto in Inghilterra quanto sul Continente, soprattutto come matematico di straordinarie capacità.
L’incontro con Halley, assai più giovane e dinamico, mise in moto una serie di eventi che portarono Newton alla pubblicazione nel 1687 dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.
Dopo la pubblicazione dei Principia Newton divenne rapidamente uno degli uomini più famosi del suo tempo, uscendo dall’isolamento in cui era vissuto sino ad allora. Iniziò a ricoprire, inoltre, cariche pubbliche sempre più prestigiose: deputato in parlamento in rappresentanza dell’Università di Cambridge nel 1689, Warden of the Royal Mint nel 1696 e Master nel 1699, cioè Guardiano e poi Direttore generale della Zecca, Presidente della Royal Society nel 1703 e infine baronetto per volere della regina Anna nel 1705.
Halley ricorse a Newton per cercare di vincere una sfida con Robert Hooke, su una questione posta da Christopher Wren: poteva tutto il sistema solare essere governato da una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza dal Sole?
La domanda di Halley a Newton era tanto semplice, quanto straordinariamente impegnativa: si poteva dimostrare questa affermazione in modo rigoroso? La risposta fu sorprendente: non solo si poteva ma Newton lo aveva già fatto, ben 19 anni prima nel 1665!
Il 1665 fu l’anno mirabilis di Newton: le scoperte matematiche, l’ottica e la gravitazione universale videro tutte la luce tra il 1665 e il 1666, mentre si trovava a Woolsthorpe per sfuggire all’epidemia di peste che stava infuriando in tutta l’Inghilterra.
È bene ricordare, ai fini della nostra narrazione, che Newton non pubblicò alcunché circa le proprie scoperte matematiche sino al 1704!
Eppure in quei due anni egli pose le basi del calcolo infinitesimale e pervenne ad altri sorprendenti risultati. Lasciamo la parola a Newton stesso: “All’inizio dell’anno 1665 trovai il metodo di approssimazione delle serie e la regola per ridurre un qualunque esponente di un binomio qualsiasi di tali serie. Lo stesso anno trovai il metodo delle tangenti […] e in novembre avevo il metodo diretto delle flussioni e l’anno successivo in gennaio la teoria dei colori e il maggio successivo possedevo il metodo inverso delle flussioni. E nello stesso anno cominciai a pensare alla gravità che si estende fino all’orbita della Luna […] tutto questo avvenne nei due anni della peste del 1665 e del 1666, perché in quei giorni ero nel fiore dell’età creativa e attendevo alla Matematica e alla Filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito”.
In particolare Newton si rese conto che il tema centrale di quella che oggi chiamiamo analisi infinitesimale, si riduceva a risolvere due problemi: data una curva (Newton non conosceva, e quindi non usò mai, il termine funzione che venne introdotto per la prima volta da Leibniz nel 1694) determinare analiticamente la tangente ad essa in un suo punto e l’area sottesa dalla curva stessa. L’approccio di Newton fu di tipo cinematico e questo è da tenere presente per gli sviluppi della polemica che lo vide contrapposto a Leibniz. In altre parole la curva venne concepita come generata da un moto continuo di un punto, e ad essa vennero associati i concetti di fluenti – in grado di descrivere la generazione dinamica di una curva – e di flussione – calcolata come tangente trigonometrica dell’angolo formato dalla tangente geometrica della curva e l’asse delle ascisse: in pratica la velocità con cui la curva viene descritta da un punto materiale in movimento. Le fluenti vennero indicate con x, y, z e flussioni con ẋ, ẏ, ẓ.
L’area sottesa dalla curva fu concepita come generata dal moto del segmento associato alle ordinate. Anche in questo caso Newton ricorse al termine flussione, però questa volta dell’area. Si trattò, dunque, di un approccio fisico e dinamico.
Gli anni che videro Newton procedere nella propria ricerca e nella carriera accademica, furono anni di intensa attività anche per Leibniz. Dopo gli studi in filosofia e legge presso le università di Lipsia, Jena e Altdorf, come già detto, si pose al servizio del Grande Elettore di Magonza, in qualità di ambasciatore presso la corte del Re Sole. L’arrivo a Parigi di Leibniz non ne decretò il successo come diplomatico, ma in compenso gli consentì di ampliare la propria cultura matematica e scientifica. Venuto in contatto con il grande Christiaan Huygens, ritenuto dai suoi coevi il massimo filosofo naturale vivente, fu da questi indirizzato allo studio dei lavori di Cartesio, Roberval, Torricelli, Barrow, Pascal e Wallis.
Il giovane tedesco, tuttavia, non si limitò a studiare passivamente. In un tempo sorprendentemente breve gettò le basi del moderno calcolo differenziale e integrale, sicuramente dopo Newton, ma in modo del tutto indipendente. Il calcolo di Leibniz presentava alcune analogie con quello newtoniano, come il metodo della cancellazione degli infinitesimi in alcuni casi specifici oppure l’uso massiccio delle serie infinite, ma le analogie terminavano qui. L’approccio leibniziano fu del tutto avulso da considerazioni cinematiche e dinamiche e ben si inseriva nel quadro delle grandi ambizioni del filosofo di Lipsia: la creazione di una “caratteristica universale” ovvero di un linguaggio simbolico nel quale potesse essere espresso ogni ragionamento.
La polemica divampa
Le differenze tra i due protagonisti della nostra vicenda non furono solo nell’approccio alla disciplina, ma anche nell’atteggiamento nei confronti del resto del mondo scientifico. La chiusura di Newton nei confronti del mondo esterno alle mura delle sue stanze a Cambridge, si mantenne inflessibile per decenni, spingendolo a pubblicare con una parsimonia che sfiorava la reticenza; Leibniz si comportò in modo completamente diverso.
Lasciata nel 1676 Parigi per cause di forza maggiore, fu costretto a passare alle dipendenze del duca di Brunswick, con l’incarico di redigere una storia della famiglia ducale. Non certo un incarico esaltante e gratificante. Questo non arrestò, tuttavia, l’opera di diffusione delle proprie idee, né fece cessare l’epistolario fittissimo con i grandi matematici d’Europa. Nel 1682 egli fu tra i fondatori degli Acta eruditorum, una rivista con sede a Lipsia su cui iniziò a pubblicare importanti lavori scientifici; tra questi la celeberrima Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus, quae nec fractas nec irrationales quantitates moratur, et singulare pro illis calculi genus nella quale vennero esposti gli elementi del calcolo differenziale e che è considerata dagli storici una delle più importanti memorie scientifiche di tutti i tempi. Negli stessi anni contribuì a fondare l’Accademia delle Scienze di Berlino.
La grande opera di diffusione delle proprie idee fruttò a Leibniz l’ammirazione di matematici di straordinaria levatura; tra tutti ricordiamo i fratelli Jakob e Johann Bernoulli, che così si espressero circa il “nuovo calcolo”: “Ci sembrava di essere stati trasportati dall’angusto golfo, dove prima nuotavamo, nel vastissimo Oceano […]”.
I seguaci di Leibniz rappresentarono una schiera di matematici tutti dediti al nuovo metodo, che non era debitore in alcun modo della dottrina degli antichi, tanto cara a Newton, e che era sganciato per quanto possibile da un approccio classico e geometrico.
Le Accademie di San Pietroburgo, Berlino e Parigi divennero centri di diffusione del calcolo leibniziano che iniziò ad essere largamente conosciuto. Ma i tempi erano maturi per innescare la miccia della polemica.
La prima pietra venne scagliata da Nicolas Fatio de Duillier, un eccentrico matematico svizzero amico di Newton, tanto ricco, brillante e di mondo, quanto Newton fu chiuso e schivo. De Duillier accusò direttamente Leibniz di plagio. Secondo le accuse quest’ultimo avrebbe avuto modo di copiare l’opera di Newton durante un soggiorno londinese, direttamente nella biblioteca della Royal Society ove erano depositati alcuni manoscritti del fisico inglese. Le accuse di de Duillier passarono, tuttavia, sotto silenzio.
Ben altro effetto sortirono le parole scritte dal matematico scozzese John Keill allievo di David Gregory e seguace di Newton, che nel 1711 nelle Philosophical Transactions of the Royal Society accusò il filosofo di Lipsia di essersi limitato a cambiare nome alle fluenti e alle flussioni. Gregory non era un grande matematico, ma era comunque un fellow della Royal Society e un membro influente della comunità scientifica. Le sue accuse non potevano passare sotto silenzio in alcun modo.
Leibniz si rivolse direttamente a Newton perché si adoperasse per far ritrattare Keill e indirizzò una lettera datata 21 febbraio 1711 alla Royal Society, in qualità di membro della stessa. A questo punto nella contesa intervennero i Bernoulli in modo assai pesante, in particolare Johann, noto per il carattere poco incline al compromesso.
La polemica divampò, tanto da spingere lo stesso Newton ad intervenire e a fare pressioni, in qualità di presidente della Royal Society, perché l’articolo di Keill divenisse la posizione ufficiale della Society.
A complicare le cose contribuirono Henry Oldenburg, teologo di origine tedesca, primo segretario della Royal Society e fondatore delle Philosophical Transactions e il bibliotecario della Royal Society, J. Collins; entrambi ebbero contatti epistolari con Leibniz, dopo il suo soggiorno londinese, nei quali lo informarono di alcuni risultati ottenuti da Newton.
Quest’ultimo si appellò alla Royal Society perché fosse istituita una commissione in grado di dirimere la questione una volta per tutte. La commissione formata rapidamente (comprendente anche un rappresentate del Re di Prussia, a testimonianza delle dimensioni e delle conseguenze internazionali causate dalla aspra polemica), lavorò con grande sollecitudine.
Il 24 aprile 1712 produsse un documento il cui estensore fu … lo stesso Newton. I firmatari del rapporto si schierarono definitivamente dalla parte di questi.
Per la verità il rapporto servì solo a chiarire la posizione di Keill e a esimerlo da pubbliche scuse nei confronti di Leibniz, senza che vi fosse contenuta un’accusa esplicita di plagio nei confronti di questi. Ma il danno era stato ormai fatto.
La polemica parve sopirsi per riprendere nuovo vigore alcuni anni più tardi, tra il 1715 e il 1716, questa volta tra Samuel Clark, seguace di Newton, e Leibniz su questioni legate all’interpretazione della cosmologia newtoniana.
Come spesso accade, ogni parola e ingiuria cessarono di essere pronunciate e ogni accusa di essere mossa, quando morì uno dei contendenti. In questo caso Gottfried Wilhelm von Leibniz, morto in solitudine il 14 novembre 1716.
La vittoria del filosofo di Lipsia, tuttavia, è stata postuma e grande: non solo la Storia lo ha liberato da ogni accusa di plagio, ma il calcolo leibniziano si è imposto come la base per lo sviluppo e la crescita dell’analisi differenziale e integrale moderna, a scapito di quello newtoniano oggi caduto nell’oblio.
Bibliografia
AA.VV., Dizionario biografico degli scienziati e dei tecnici, Zanichelli, Bologna, 1999.
Bottazzini U., Il flauto di Hilbert, Utet, Torino, 1990.
Guicciardini N., Newton. I grandi della scienza, Le Scienze, Milano, 1998.
Hall A. R., Filosofi in guerra, Il Mulino, Bologna, 1982.
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Westfall R.S., Newton, Einaudi, Torino, 1989.
*Tratto dalla rivista Scienza & Società n. 25/26 – “Il volo della ragione”