Chi governa il mondo: disuguaglianze economiche e disuguaglianze di salute

Chi governa il mondo: disuguaglianze economiche e disuguaglianze di salute

Il pianeta dei 7 miliardi di abitanti presenta molte caratteristiche di ingiustizia, dalla aspettativa di vita alla qualità della stessa. Sulla base del “capitalismo patrimoniale” l’estrema ingiustizia è inevitabile, come anche la visione del fenomeno da parte dei fisici suggerisce: l’ingiustizia sociale è inevitabile per analogia con l’aumento della entropia stabilito dalla seconda legge della termodinamica (Chomsky, 2014; si veda oltre).

Gli “econofisici” sostengono infatti che l’ineguaglianza sia “naturale” poichè la distribuzione dei redditi è inevitabilmente una funzione esponenziale descrescente, con pochi vincitori e molti perdenti. Dinnanzi a questa constatazione si erge forte ed imperativa una affermazione “biologica”: ma non dovrebbe essere così. La Biologia dimostra che le strategie di reciprocità sono quelle vincenti nei termini evolutivi e dunque combattere la trasmissione intergenerazionale della ingiustizia e lo svantaggio (materno) della salute alla nascita (si veda l’illuminante lavoro del 2014 di Anna Aizer e Janet Currie:The intergenerational transmission of inequality: Maternal disadvantage and health at birth) si presentano come imperativi adattativi  da perseguire, imperativi poichè dettati dalle conoscenze attuali della Biologia e non da un ideologico ed aprioristico idealismo romantico di giustizia ed equità. E dunque è necessaria una ricognizione “biologica” del fenomeno senza la quale ci si aggroviglia in tortuosi ragionamenti, argomentazioni e contro-argomentazioni cariche di fallacie di ogni tipo.

L’ingiustizia sociale ha radici biologiche lontane, probabilmente non nasce come si è sempre creduto con la rivoluzione agricola; evidenze archeologiche indicano la perdita dell’uguaglianza (le “radici dell’1%”) accadere circa 15.000 anni orsono con l’uomo cacciatore del vicino oriente che smette di condividere il cibo (Pringle, 2014). La transizione dalle società egualitarie di cacciatori-raccoglitori a quelle basate sulla coltivazione di cereali e caratterizzate da competizione economica e ineguaglianze non è stata netta e semplice; al contrario, gli archeologi hanno trovato evidenze in favore del fatto che popolazioni semisedentarie (i Natufiani, dal nome della località ove sono stati trovati i resti, Wadi an-Natuf, una piccolo località a metà strada tra Tel Aviv e Ramallah) di cacciatori praticavano agricoltura (all’incirca nel 13.000 avanti Cristo) ed iniziarono ad accumulare risorse di cibo nei villaggi ove si stabilivano. Si ritiene questa sia stata la transizione epipaleolitica alle pratiche costanti di agricoltura e di sedentarietà con lo svilupparsi di precise stratificazioni sociali, “i ricchi ed i non-ricchi” (per una review si veda Pringle, 2014). Interessante notare come le stratificazioni sociali siano state promosse e mantenute da pratiche religiose basate su sacrifici umani, come ben documentato da Joseph Watts (Watts et al., 2016). La possibilità di accumulare il cibo sovrabbondante avrebbe così favorito lo sviluppo di una società “transegualitaria” verso una società con la presenza di proprietà private (di aliquote del cibo sovrabbondante) e favorendo così l’ineguaglianza.

Da quei giorni un lungo tragitto ha visto l’umanità passare attraverso una infinità di conflitti e condizioni storiche all’interno delle quali si è andato consolidando il fatto che l’ineguaglianza avesse radici biologiche così da giustificarne culturalmente e socialmente il permanere: sino alle riflessioni di Marx ed Engels sulle condizioni operaie a Manchester che culmineranno con la scrittura de “Il Capitale”. Non vi è dubbio che questa opera costituisca un punto di riferimento per una riflessione sulla condizione di disuguaglianza, al di là del contesto politico di appartenenza a cui fare riferimento. La storia delle condizioni economiche sino ai nostri giorni si dipana poi in avvenimenti meglio conosciuti per giungere all’oggi, quando è ormai chiaro che nelle società occidentali si è assistito ad un fenomeno che ha risvolti pressochè stupefacenti: si è arrivati dopo guerre, battaglie sociali e conquiste ideologiche ad una generazione, quella del secondo dopoguerra mondiale, che ha avuto assicurati tutti quei beni che mai prima erano stati consegnati dallo stato sociale ai propri cittadini (istruzione, lavoro, salario, salute; con una piccola eccezione nella nazione germanica, quando nel corso della edificazione dello Stato si giunge dopo lo “stato militare” e lo “stato fiscale” allo “stato scolastico” con le riforme scolastiche in Austria e Germania influenzate da Alexander von Humboldt, con un investimento sulla istruzione dei giovani che non avrà mai più pari nelle società occidentali, Jeismann, 1987) permettendo loro anche di accedere ad un “ascensore sociale” per il quale il figliolo dell’idraulico poteva ben aspirare ad un salto di classe. Viceversa, i figli di quella generazione (per brevità, quella che ha avuto tutto, quella del ’68 !) non hanno avuto altro che le briciole e le macerie di queste conquiste, come chiaramente risulta da innumerevoli statistiche (tra le altre sono molto utili per sviluppare riflessioni sulla disuguaglianza quelle presentate dall’ultimo rapporto Mckinsey https://www.mckinsey.it/idee/poorer-than-their-parents-a-new-perspective-on-income-inequality)

Solo per il caso Italia basterà ricordare che ben 9 italiani su 10 sono oggi più poveri dei loro genitori, dato spaventosamente negativo che si colloca comunque in un trend del tutto generale (sebbene non a questi livelli) e valido per tutti i paesi occidentali, ben 25 paesi, più il Giappone. Considerando il decennio 2005 – 2014 circa il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio in condizioni di reddito fermo, se non in calo, rispetto all’anno 2004. Dalla fine della seconda guerra mondiale non era mai accaduto nulla di simile, un fenomeno che riguarda circa 600 milioni di persone. Per rendere ragione dei drammatici aggettivi impiegati per descrivere questa situazione, si pensi che tra il 1993 – 2005 solo il 2% della popolazione aveva visto il proprio reddito calare, o restare pressoché inalterato, al termine del decennio considerato. L’Italia, maglia nera di questa terribile classifica con il 97% delle famiglie coinvolte nella diminuzione di reddito, è purtroppo in buona compagnia seguita dagli Stati Uniti d’America con un 81% e poi via via con percentuali decrescenti Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, etc sino ad un “accettabile” 20% della Svezia ove l’intervento pubblico mitiga di molto il numero delle persone colpite e viene additato quale esempio virtuoso da seguire.

Lo stato in Svezia si è fatto promotore di politiche economiche capaci di intervenire sul mercato del lavoro per contrastare il trend occidentale con l’obiettivo primario di mantenere il posto di lavoro e così alla fine del decennio considerato (2014) i redditi disponibili erano cresciuti quasi per tutti. E dunque non stupisce leggere nel rapporto CENSIS presentato a Roma 8 giugno 2016 in occasione del sesto “Welfare day” (rapporto CENSIS-Rbm assicurazione salute) che ben 11 milioni di italiani rinunciano, tra gli altri beni, al bene forse più sensibile di tutti, quello delle cure in sanità per mancanza di danari. Dal 2012 al 2015 ben oltre due milioni di persone non sono state in grado di curarsi: 2.4 milioni di anziani. La situazione delineata non risparmia neppure i giovani (2.2 milioni) e comunque tutte le fasce di reddito di quelle persone che non possono permettersi una assicurazione sulla salute, assicurazione necessaria poichè le liste di attesa e le strutture sanitarie pubbliche, molte delle quali obsolescenti, ospedali in primis (con grande difformità sul territorio nazionale, si veda oltre ed il documento della Fondazione Umberto Veronesi in questo volume), sono incompatibili con i tempi dei controlli e delle malattie.

La vita, e la salute in modo particolare, al tempo dell’austerità e della rivoluzione biologica in medicina è regolata dal darwinismo sociale più spinto: più cure ma solo per chi può permettersele. Per i figli del dopoguerra (baby boomers) “tutto e di più” come dicevamo poco sopra e quindi anche il sistema sanitario nazionale (istituito nel 1978) ma per i millenials (o come si vogliano chiamare i giovani ed i meno giovani tra i 18 ed i 40 anni di età: next generation, generation Y, generation next, echo boomers), e cioè i giovani occidentali considerati in funzione di categoria merceologica, vale la legge del chi paga si cura. Molti non potranno farlo poichè non dispongono dei danari necessari a pagare i tickets (aumentati); oltre 7 milioni di italiani hanno fatto ricorso al sistema dell’intramoenia per evitare le lunghe file di attesa, ad esempio, per svolgere esami necessari nel brevissimo tempo; esami per i quali non è possibile attendere per mesi di ottenere un referto. Circa il 30% del campione considerato si è rivolto alla sanità privata, indebitandosi per ottenere quel referto medico necessario subito, non tra un anno!

Il rapporto permette di formulare diverse teorie come ricorda Roberto Ciccarelli sul Manifesto del 6 giugno 2016: una è molto semplice, tanto più sono lunghe le liste di attesa tanto più è favorita la sanità privata, il che risulta ovvio. Una seconda ha il sapore della perversione e della beffa, ed è quasi un corollario della prima: quanti più italiani sottoscriveranno una polizza sanitaria (o un fondo integrativo) privata tanto più la sanità pubblica potrà disporre di risorse per curare i meno abbienti. Tutto lo scenario delineato dagli assicuratori e sostenuto dal governo Renzi crolla dinnanzi ad una semplice costatazione: i famosi 80 euro di bonus IRPEF con i quali il governo pensa di sostenere il ceto medio servono proprio a pagare la sanita’ privata: nota Roberto Ciccarelli che dal 2013 al 2015 si e’ passati da 485€ a 569€ procapite nella spesa in sanita’ privata (con un totale speso per quest’ultima di 34.5 miliardi di euro).

Chi Governa il Mondo (delle disuguaglianze)

A noi pare che questa domanda debba sorgere spontanea a tutti coloro che si interrogano sul “che fare” per uscire da questa situazione. Situazione che non è drammatica sulla “carta” delle statistiche ma “sotto la pelle” delle grandi masse: basterà leggere il rapporto OXFAM dedicato al famoso discorso dell’1% (o se meglio si vuole chiamarlo, del 99% che non ha quasi nulla): an economy for the 1% (http://www.oxfamitalia.org). Qui basterà ricordare che nel 2016 sono 62 i superpaperoni che sull’intero pianeta detengono il 99% delle ricchezze globali; questi erano 80 nel 2014, 388 nel 2010. E dunque è probabile che tra un anno o due questi ricchissimi scenderanno ad un numero di persone capace di essere accomodato su di un autobus, nell’intorno dei 40. E costoro trovano giustificazioni anche importanti e degne di nota, citano sempre Friedrich August von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974 famoso tra l’altro, per l’affermazione che “….gli uomini non sono tutti eguali e soprattutto ……non vanno trattati come tali” con ciò avvalorando l’idea che la povertà ha origini ereditarie (nel DNA) e che vi è una predisposizione genetica alla povertà, questa non è un prodotto dell’azione del mercato e della mancata istruzione scolastica causata dalla povertà. Con ciò trovando ancora oggi epigoni importanti in campo politico con David Cameron, Duncan Smith, George Osborne i quali usano spesso i termini di lavativo, scansafatiche, scroccone, parassita (shirkers, scroungers) per riferirsi ai poveri. Per fortuna un altro premio Nobel per l’economia, Joseph E. Stiglitz ha ribattuto che le diseguaglianza sono frutto di scelte politiche dannosissime e capaci solo di portare ad una erosione di democrazia e di coesione sociale. Ed è grazie al lavoro di Thomas Piketty (Piketty e Saez, 2014) che si è provato scientificamente che sotto le attuali condizioni economico-politiche i ricchi diverranno sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri (Hvistendahl, 2014; Marshall, 2014; Ravaillon, 2014), con un orizzonte culturale impregnato dalla idea protestante-riformista che “la ricchezza è un merito mentre la povertà una colpa”. Due biologi di gran fama, David Sloan Wilson e Edward Osborne Wilson (alle cui opera si rinvia) sono intervenuti su questi temi e molti altri ad essi correlati giungendo alla conclusione che l’egoismo batte l’altruismo all’interno di un piccolo gruppo ma l’altruismo vince sull’egoismo nella competizione tra gruppi (David Sloan Wilson, 2015) mentre Edward Osborne Wilson (2013; 2015) in termini ben più radicali suggerisce di eliminare le credenze religiose per la salvezza della umanità e del suo progresso.

Ci pare triste, ma quanto mai reale, il dover riconoscere che non è più la politica degli stati nazionali o quella delle organizzazioni internazionali a governare il mondo ma la “triste  scienza”, la scienza della economia declinata da chi gestisce il capitale: i vari fondi sovrani, investitori internazionali, prestatori di fondi, etc insomma tutte quelle forme di capitale organizzato che Noam Chomsky pone nel senato virtuale (metafora mutuata dall’economista Barry Eichengreen; interessante l’articolo di Noam Chomsky pubblicato sul NewStatesman del 28 giugno 2010: http://www.newstatesman.com/south-america/2010/06/chomsky-democracy-latin) così come lo presenta nel suo ultimo libro che da il titolo a questo paragrafo who rules the world?  Ed è questo senato virtuale che continuamente sottopone a giudizio le politiche dei governi nazionali, in particolare quelle legate allo stato sociale, e che se non le trova utili per lo sviluppo dei propri interessi finanziari trova sempre il modo di affossare con fughe di capitali e attacchi speculativi. Questa situazione viene da lontano ed ha il suo perno nello smantellamento attuato negli anni ’70 del secolo scorso degli accordi di Bretton Woods del 1944, accordi stabiliti tra le principali potenze industrializzate e adottati per regolare le politiche monetarie, con il devastante portato della liberalizzazione dei movimenti di capitale.

Non va dimenticato infatti da dove deriva la attuale situazione e che quando si parla di Bretton Woods inevitabilmente il pensiero corre al sistema di regolazione dei cambi internazionali che ha caratterizzato il periodo compreso tra la fine del secondo dopoguerra e il 1971, data in cui il sistema venne abbandonato. Durante la conferenza di Bretton Woods furono presi gli accordi che diedero vita ad un sistema di regole e procedure volte a regolare la politica monetaria internazionale con l’obiettivo di governare i futuri rapporti economici e finanziari, impedendo di ritornare alla situazione che diede vita al secondo conflitto mondiale. Secondo gli storici tra le cause della guerra infatti andavano conteggiate anche le diffuse pratiche protezionistiche,  le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive e la scarsa collaborazione tra i paesi in materia di politiche monetarie. Ed è così che si diede vita alle due istituzioni oggi conosciute con il nome di Fondo Monetario Internazionale e di Banca Mondiale. Chomsky, nella sua lucida introduzione al libro, dice che la domanda posta dal titolo del libro non ammette risposte semplificate ma che: “…non è difficile identificare gli attori principali quanto a capacità di modellare le politiche mondiali. Tra gli Stati, dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sono di gran lunga al primo posto, ma con l’inevitabile declino Washington ha dovuto spartire il suo potere con gli altri “padroni dell’universo” all’interno del “governo mondiale de facto“. Questi “padroni dell’universo” sono ovviamente ben lontani, come scrive Giorgio Lunghini sul Manifesto del 13 agosto 2016, dal rappresentare gli interessi delle popolazioni dei loro stessi paesi.

Negli Stati Uniti, come nei maggiori paesi industrializzati, le élite economiche e i gruppi organizzati che rappresentano gli interessi del mondo degli affari dirigono le scelte economico-sociali dei governi influenzandone in maniera sostanziale l’intera politica, mentre il cittadino medio ed i gruppi che lo rappresentano non hanno che poca o nessuna influenza. Del tutto condivisibile l’affermazione di Giorgio Lunghini che la maggior parte della popolazione ai livelli più bassi di reddito e ricchezza è di fatto esclusa dal sistema politico. In Europa il declino della democrazia è divenuto impressionante da quando il processo decisionale sulle questioni cruciali è stato demandato alla burocrazia di Bruxelles ed ai poteri finanziari che essa rappresenta: basta ricordare come è stata condotta la crisi greca da parte della troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale): solo e soltanto politiche di austerità intese a ridurre il debito pubblico, politiche che hanno devastato il tessuto sociale del paese e, tristissima considerazione, il tutto per un ammontare del debito che il solo Berlusconi avrebbe potuto coprire con il denaro che nel corso della sua vita dovrà elargire alla seconda moglie da cui ha divorziato. Con i veri responsabili della situazione greca (i.e., banche tedesche, francesi ed italiane in primis) a guardare sullo sfondo.Poco è cambiato dai tempi in cui Adam Smith condannava “i padroni dell’umanità”, i “mercanti e i “manifatturieri” che erano i “principali architetti” della politica di quel tempo attenti solo alla salvaguardia dei propri interessi. L’era neoliberale ha solo cambiato gli attori di questa tragica realtà, passando dalla borghesia imprendidora alla borghesia compradora con dei padroni che provengono dai livelli più alti delle economie che sempre più sono monopolizzate da istituzioni finanziarie gigantesche e spesso predatorie, da multinazionali protette dallo Stato e da quei personaggi politici che sono stati eletti per rappresentare i loro interessi.

Con questo quadro così ben delineato da Giorgio Lunghini nel presentare il volume di Chomsky non è certo difficile leggere l’ultimo rapporto sulle disuguaglianze nel mondo che l’organizzazione OXFAM (è la organizzazione di un movimento globale di persone che lavorano insieme per porre fine all’ingiustizia della povertà. Si veda il sito italiano http://www.oxfamitalia.org; molti la ricordano perché nel bellissimo film di Sean Penn “into the wild” il giovane Christofer McCandless prima di partire per il proprio viaggio dona tutti i propri averi a questa organizzazione), ha pubblicato il 12 di agosto 2016 in occasione dell’International Youth Day all’apertura del World Social Forum a Montreal (http://www.agenparl.com/international-youth-day-_-oxfam-oltre-500-milioni-giovani-nel-mondo-vivono-poverta-appello-ai-leader-mondiali-dal-wsf-montreal-uninversione-rotta/): un dato tra gli altri da ragione del quadro delineato da Chomsky ricordando che sono ben 500 i milioni di giovani tra i 15 e 24 anni costretti a sopravvivere con meno di 2 dollari al giorno quando le statistiche demografiche dicono che oggi sul pianeta Terra vive il più alto numero di individui compresi in quella fascia di età (circa 1.8 miliardi).

Nel rapporto “i giovani e la disuguaglianza: è tempo di rendere le nuove generazioni protagoniste del proprio futuro” lanciato nel quadro della campagna “sfida l’ingiustizia” si evidenzia che ben il 43% della forza lavoro giovanile a livello globale è disoccupata o vittima di retribuzioni inadeguate. Per l’Italia il quadro è quanto mai fosco: certificato dall’ISTAT il tasso di disoccupazione per la fascia 15 – 24 anni è ben del 36.5%. La direttrice di OXFAM Italia, Elisa Bacciotti dice: “Governi e società civile debbono lavorare insieme ai giovani di tutto il mondo perchè il peso dell’estrema disuguaglianza economica e sociale non schiacci le nuove generazioni in termini di accesso a servizi e diritti essenziali come l’istruzione, la sanità ed il lavoro….. Sul pianeta Terra circa 125 milioni di giovani sono vittime dell’analfabetismo ed in alcune regioni le ragazze hanno una maggiore probabilità di morire di parto che di finire gli studi”.

E’ un fatto incontrovertibile che le disuguaglianze economiche nei paesi OCSE sono oggi più accentuate di quanto non lo fossero anche solo vent’anni o dieci anni orsono. Fatto prepotentemente presente nella attuale campagna elettorale presidenziale degli Stati Uniti d’America e identificato con le posizioni di Bernie Sanders. Questa realtà è declinata in molti diversi aspetti ma uno in particolare assume un molteplice significato: quello legato alla salute “la salute ha un doppio valore morale: è essenziale per la qualità della vita e per la vita stessa ed è strumentale come pre-condizione di libertà” sosteneva Giovanni Berlinguer. E continuava la sua riflessione in termini di grande attualità: “quando prevale la malattia, il destino di una persona (e anche quello di una nazione) è lasciato in balia degli elementi e dei poteri esterni e può entrare in un circolo vizioso di regressione. L’ineguaglianza tra ricchi e poveri, a livello di individui, comunità e nazioni, sta diventando sempre più profonda nell’area della salute e della sanità, contribuendo così alla disperazione e all’ingiustizia che prevalgono e continuano a crescere nei settori correlati alla salute (cibo, istruzione, reddito)”. Parole profetiche che trovano nella situazione odierna una drammatica conferma (si vedano i rapporti lifepath della Commissione Europea; rapporto Oxfam, illuminante e completo come sempre; rapporto osservasalute 2016).

Le conseguenze delle disuguaglianze economiche sulla salute sono il tema al centro di una profonda riflessione svolta nel corso delle serate ghislieriane dal 3 al 7 ottobre 2016. Si vuole giungere, in termini molto ambiziosi, a formulare una proposta da sottoporre alla società civile ed ai decisori politici: quella di istituire e riconoscere la figura “assistente di vita indipendente” basata sulla solidarietà intergenerazionale e sulla cultura del dono, proposta che in aggiunta ai tanti dati quantitativi di economia e di sanità si basa su dati demografici di chiarissima evidenza.

Lo sforzo di tutti noi deve essere quello di far si che nel millennio delle scienze della vita, contraddistinto da fantastici e promettenti avanzamenti nelle conoscenze con importanti opportunità di applicazioni tecniche offerte dalle biotecnologie in campo medico, le possibili terapie basate su farmacogenomica e più in generale sulla medicina di precisione siano aperte ed accessibili a tutti i cittadini del mondo. A questo riguardo l’Europa ha una grande responsabilità nel divenire portatrice di istanze di giustizia ed equità sociale basate sulle bioscienze, istanze che deve saper esportare con gli strumenti che meglio sa impiegare e la caratterizzano: la cultura.

Per una piena comprensione di tutti i risvolti legati a questo tema riteniamo utile rinviare alla lettura del documento elaborato dal Comitato Etico Fondazione Veronesi: “L’impatto delle diseguaglianze socio-economiche sul diritto ad avere eguali opportunità di salute in Italia”, riportando qui solo la brevissima introduzione:

“Le disuguaglianze economiche nei paesi Ocse sono oggi più accentuate di quanto non fossero trent’anni fa. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, il divario tra ricchi e poveri è aumentato vertiginosamente non solo nei paesi tradizionalmente più disuguali come gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma anche nei paesi storicamente più attenti all’equità, come quelli scandinavi. Dal 2008 in poi, la crisi economica, più profonda ed estesa di quanto previsto, ha esacerbato queste tendenze, determinando un incremento nelle diseguaglianze economico-sociali a livello globale.

Tra le conseguenze di questi cambiamenti, alcune delle più rilevanti riguardano l’impatto che le disuguaglianze economiche e sociali hanno per la salute. Studi comparativi tra diversi paesi hanno evidenziato la correlazione tra fattori socio-economici – come l’istruzione, il reddito, la condizione occupazionale, la classe sociale, etc. – e condizioni di salute misurate sia in termini di prevalenza di patologie sia di mortalità. Chi è svantaggiato socio-economicamente, quindi, si ammala più spesso e rischia di morire prima rispetto a chi dispone di risorse economiche adeguate e appartiene a classi sociali più agiate. La riduzione delle disuguaglianze nei confronti della salute passa quindi anche – se non soprattutto – per una riduzione delle diseguaglianze economico-sociali.

In questo documento il Comitato Etico della Fondazione Veronesi intende denunciare il rapporto tra le diseguaglianze socio-economiche e le diseguaglianze di salute in Italia, con particolare riferimento ai cambiamenti emersi negli ultimi dieci anni. Analizzando i dati disponibili, emerge infatti che nel corso dell’ultimo decennio si sono determinate nel nostro Paese diseguaglianze crescenti che segnalano molteplici criticità per un pieno rispetto del diritto alla salute. In un momento storico in cui non vi è mai stata così tanta ricchezza sul pianeta rispetto al numero dei suoi abitanti, è inaccettabile non solo che a molti sia ancora negato il pieno rispetto del proprio diritto alla salute, ma anche che tale diritto si stia progressivamente erodendo per ampie fasce della popolazione, in particolare quelle più deboli, per le quali è sempre più difficile raggiungere lo stato di salute fisica e mentale che sarebbe loro altrimenti disponibile in una società più equa”.

Nel rimandare alla interessante lettura dell’intero documento, capace di fornire molte spiegazioni al lettore riguardo la situazione attuale della salute sul pianeta Terra (Sepúlveda J. e Murray, 2014; Underwood, 2014) ed in particolare in Italia, a noi pare che questa si sia delineata a partire dagli anni ’70. Sino alla fine di quegli anni il governo degli ospedali e quindi della salute pubblica era in mano ai cosiddetti baroni della medicina, spesso dispotici, ma quasi sempre professionisti di alto livello; lo sgretolamento di questo discutibile sistema possiamo senz’altro farlo risalire ai primi anni 80 con l’ingresso a piè pari della “politica” nella gestione degli ospedali pubblici. Le nomine a tutti i livelli dal primario ai suoi aiuti fino all’ultimo dei portantini è da allora ad esclusivo appannaggio del politico di turno. Inizia così lo sgretolamento culturale, prima ancora che scientifico in senso stretto, dell‘idea di assistenza al massimo livello al malato. Il colpo decisivo arriva poi all’inizio del nuovo secolo con un altro cambiamento epocale, a partire proprio dal lessico per riversarsi poi sulla pratica. Il malato o paziente che dir si voglia diventa “utente” o peggio “cliente”, l’ospedale diventa azienda. E’ la fine di una epoca culturale. L’attenzione si sposta sul bilancio e sugli eventuali utili che si possono fare. Questo fatto determinerà anche cambiamenti nell’architettura organizzativa degli enti ospedalieri che vedranno aumentare di molto il numero di addetti alle pratiche amministrative ed alla burocrazia a scapito del personale sanitario. I termini medici vengono soppiantati dai termini economici e cosa ancor più grave ed inquietante il tutto avviene con la condiscendenza della classe medica che si pone anima e corpo a disposizione dei nuovi gestori/padroni.

Alla fine del secolo scorso poi tramonta del tutto l’esperienza della “condotta medica” e con la crisi della mutualità si apre una crisi della medicina di ”base” la quale smarrisce la propria identità costretta dalla logica dominante della medicina ospedaliera. Per fortuna oggi questa si va ridefinendo grazie alla elaborazione di nuove strategie di intervento e di un nuovo approccio al paziente caratterizzati da un alto grado di originalità rispetto alla medicina ospedaliera (medicina di famiglia, di comunità, etc). La medicina clinica, largamente coincidente con la medicina ospedaliera , con i suoi più 200 anni e più di storia, è l’erede diretta della “clinica medica” di cui utilizza paradigmi e metodologie. Il suo modello è assai consolidato, e ad oggi dominante, e si articola in specializzazioni capaci di prestazioni e interventi sempre più sofisticati e sempre più legati alla tecnologia: basterà pensare alle più recenti affermazioni legate ai risultati dei sequenziamenti dei genomi animali, alla biologia delle cellule staminali, ai progetti di sequenziamento di centinaia di migliaia di genomi umani, con l’intento non più solo di trovare il singolo gene responsabile di una specifica malattia ma con l’ambizioso progetto di alimentare quella medicina di precisione basata sulle conoscenze di circuiterie geniche capaci di determinare malattie a base genetica complessa (la quasi totalità delle malattie) sia per la predizione della suscettibilità alla malattia, sia per la terapia, ormai definitivamente consacrata a trovare la base farmacogenomica utile per terapie individuali di genere e di etnia.

Ed è proprio questa medicina quella che incontra maggiormente difficoltà nella gestione della comunicazione, del rapporto medico-paziente. In buona parte questa difficoltà discende dal fatto che questa medicina si concentra più sulla malattia che sul malato, vanificando così i propri successi poiché non in grado di cogliere in tutta la loro rilevanza gli aspetti sociali e psicologici legati alla malattia, e più in generale alla salute, in particolare modo nella gestione del paziente cronico. Da qui i “bisogna umanizzare l’ospedale”, “il medico deve essere capace di ascoltare il paziente” e il rimpianto per il “medico di prima” che ascoltava, visitava e dava consigli e sapeva prendersi cura del paziente, non solo guarire la malattia.

Lo sviluppo tecnologico e i progressi della medicina, l’invecchiamento della popolazione e l’evoluzione del quadro epidemiologico verso le malattie cronico-degenerative, i mutamenti intervenuti nell’assetto delle società occidentali e le aspettative dei cittadini sono tutti fattori che hanno innescato un processo che ha fatto emergere nuovi bisogni e nuove domande di salute e di assistenza. Domande di una tale complessità che a noi pare possibile esaudire solo in un contesto istituzionale di presa in carico totale da parte di un sistena sanitario nazionale ben meno sensibile alle sirene della economia di mercato rispetto agli operatori privati.

Queste poche riflessioni costituiscono un semplice tentativo di ricomporre le tessere di un puzzle rappresentato dal composito e complesso sistema di servizi sanitari e della medicina, che continuamente si compone e si scompone, che continuamente muta, che con il suo incessante divenire non accetta che si formulino risposte definitive né può pretendere di trovare soluzioni semplici o risolutive così come molto spesso gli approcci di tipo economicista imposti da governi non attenti fanno, tentando anche di convincere il grande pubblico che questa sia la soluzione ai tanti aspetti delle cure in medicina. Questi approcci sono molto carenti nei risultati pratici ottenuti per contenere e combattere le disuguaglianze, è questo un dato di fatto che sperimentiamo tutti i giorni. E non è ncessario essere studiosi di economia per capirlo.

L’economia si occupa di scelte e delle condizioni in cui queste scelte si concretizzano, i mercati. A nostro giudizio deve occuparsi di consumatori e non di pazienti: l’equivoco in ambito di sanità pubblica è tutto racchiuso in questo fatto. Da questa semplice considerazione e dal persistere di questo fatto deriva tutta una serie di effetti, primo tra tutti quello di mantenere in vita un sistema di erogazione delle pratiche sanitarie che spesso diviene insoddisfacente poichè il “sistema sanità” viene disegnato per perseguire anche altri fini, fini di mera natura economica ed a volte prioritari rispetto a quelli di perseguire al meglio le terapie e le cure. È il consumatore il perno dei ragionamenti dell’economia. Il paziente o il cittadino rappresentano specificazioni del concetto di consumatore legate a modificazioni della relativa funzione di utilità: concetto quest’ultimo che pur fondante della ricerca economica è, quasi paradossalmente, confinato sul piano normativo. E così la lettura economica considera il paziente/malato essenzialmente un consumatore che vede modificarsi la propria curva di indifferenza (ovvero l’ambito delle scelte razionali di consumo) per effetto di una modificazione dello stato di salute.

Federico Spandonaro (2003) insiste sul fatto che discende da questo tipo di ragionamenti l’inelasticità a livello individuale del consumo sanitario (al prezzo della prestazione) e quindi la natura di bene primario della salute. In queste modificazioni dell’utilità risiederebbe buona parte della peculiarità della micro-economia sanitaria (e quindi la sua giustificazione come branca della economia politica). Giustamente esprime perplessità al riguardo: provocatoriamente se analizziamo le pretese diversità tra la condizione di malato e quella (ad esempio) di affamato è facile concludere che sono  minime: chi ha saltato un pranzo sa come una significativa fame comporta vedere sotto una luce “nuova” l’alternativa tra una lauta cena e un buon film, ma non per questo in economia si sente il bisogno di ridefinire l’utilità in funzione della intensità della fame. Proseguendo sullo stesso filo di ragionamento si potrebbe arrivare a non considerare la salute tra i beni primari, come fa Rawls nella sua teoria della giustizia sociale.

Interessante autore al riguardo del tema trattato quest’anno in Collegio Ghislieri, John Bordley Rawls (Baltimora 1921 – Lexington 2002) è un importante figura della filosofia morale e politica (è merito di Salvatore Veca aver introdotto in Italia il suo primo libro: Una teoria della giustizia, 1982) che merita di essere studiato a fondo.Per Rawls, compito prioritario della filosofia politica non è quello della ricerca del bene comune, ma quello di trovare un’adeguata nozione di giustizia ed un’altrettanto adeguata procedura per comprendere come le nostre istituzioni possono essere più giuste. Il concetto di giusto deve essere considerato prioritario rispetto al bene nella teoria morale, e questo perché, se avviene il contrario, il rischio è quello di non riuscire più ad ottenere una definizione autonoma e indipendente di giustizia. Dice Rawls: ogni persona ha un uguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri ed in secondo luogo che le ineguaglianze economiche e sociali sono ammissibili soltanto se sono per il beneficio dei meno avvantaggiati. Quest’ultima affermazione è alla base del principio di differenza, secondo cui le ineguaglianze in termini relativi tra i membri della società sono giustificate se comportano un beneficio, in termini assoluti, anche per i meno avvantaggiati. Ciò porterebbe ad un risultato equo: nella società nessuno avrebbe né troppo, né troppo poco.

Per tornare alla figura del cittadino val la pena ricordare che questa deriva da quella di appartenenza ad una comunità e quindi quando si parla di sanità e cittadini è necessario riferirsi a questa derivazione: ne consegue che il riferimento teorico per il concetto di eguaglianza diviene il benessere sociale, della comunità, che sostituisce e generalizza quello di utilità individuale. Siamo nel pieno campo del welfare dove nell’ambito dell’equità vanno socialmente mediate le istanze individuali. Tra il dire ed il fare in questo caso si colloca veramente un mare di difficoltà poiché la limitatezza delle risorse pubbliche da destinare alla sanità è divenuto un mantra fattuale (vedi contributo di Ivan Cavicchi in questo volume) ancorchè i proclami governativi sbandierano cifre con segno algebrico opposto, da negativo come è in realtà a positivo. E’ evidente che la decisione su quanto destinare a consumi pubblici, individuali e collettivi ha un ruolo prioritario nel determinare l’esito finale dell’intervento governativo in sanità. Tutte le analisi statistiche a livello internazionale evidenziano come la sanità pubblica offra maggiori garanzie nella produzione di esiti sociali più equi di quelli delle organizzazioni profit dedicate alle cure della salute.

Tuttavia, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso le recessioni e le difficoltà della finanza pubblica per gran parte dei paesi occidentali hanno contribuito a far prevalere l’attenzione delle autorità sulla necessità di contenere i costi dei servizi pubblici. E’ così che in sistemi sanitari nazionali universalistici e gratuiti (ad esempio quelli di Regno Unito e Italia) molti degli interventi realizzati per contenere i costi ed aumentare l’efficienza nella prestazione dei servizi si sono concentrati sui tentativi di introdurre nei sistemi sanitari meccanismi di allocazione delle risorse che tenessero in conto, più che princìpi di natura gerarchica (e ideologica, perseguendo obiettivi di eguaglianza, redistribuzione e protezione sociale per garantire il massimo accesso possibile ai servizi di cura), la presenza di mercati. Dando quasi per scontato che la presenza di organizzazioni profit nei mercati della salute avesse il potere demiurgico di alleviare o risolvere il problema dei costi e di efficienza che tipicamente caratterizzano l’intervento medico. Ma qui, a nostro giudizio, va posta la cesura in un ragionamento che ha una credibilità, relativa, solo al proprio interno ed accettando logiche di puro mercato: ciò che è da rifiutare, tornando ad un vero e proprio sistema universalistico e gratuito, sono da un lato l’idea che efficienza e buona organizzazione siano tipici solo delle forme di organizzazione privata del lavoro e non anche di quella pubblica, e dall’altro l’idea che il trattamento della salute sia un bene assimilabile a qualunque altro bene di valenza merceologica.

La salute non è un bene negoziabile in base a delle meravigliose leggi economiche declinate da guru della scienza triste: si deve ben essere edotti del fatto che la cura della salute costa: si veda il contributo di Ivan Cavicchi, la medicina oggi è complessa (la sua ragione scientifica oggi racchiude malattia, economia, società), regressiva (comprende la malattia ma non l’uomo malato) e dispendiosa (curare il malato costa). E si deve ben sapere ed essere orgogliosi del fatto che la comunità, la societas, la communitis, della quale faccio parte è permeata da valori culturali capaci di produrre l’idea che investire sulla salute, spendere per la salute dei cittadini, è un bene che si colloca al di fuori di meri calcoli di profit. E si deve poter dire agli economisti ed agli amministratori loro appiattiti seguaci che questa posizione ideologica ha anche altri meriti tra i quali un ritorno positivo proprio per quella economia di cui sono i sacerdoti. Un ritorno indiretto, certo, ma potentissimo nel sostenere le economie: cittadini in buona salute sono un investimento poichè sapranno lavorare al meglio, dedicarsi con amore allo sviluppo dei propri interessi ed ai mille risvolti culturali del buon vivere che sono potente traino per tutte le attività economiche di una società, tutte quelle su cui gli economisti possono tranquillamente fare di calcolo.

Sarebbe buona cosa spiegare ai nostri decisori politici che non saranno mai gli economisti a risolvere l’equazione, non potranno mai riuscire in questa impresa per la semplice ragione, chiara anche allo studente del primo anno di economia, che la merce “assistenza sanitaria” è connotata da troppe “incertezze”, prime tra tante quelle della malattia e dell’efficacia del trattamento. E dunque diviene impossibbile risolvere l’equazione di assicurare a tutti i cittadini i trattamenti necessari e nel contempo di avere un ritorno, o almeno una non perdita, economica. In questo scenario di incertezze il ritorno economico, o la non perdita, si può realizzare solo a discapito della perdita del valore eguaglianza: la prova è sotto agli occhi di tutti noi, è nei numeri impietosi e tragici delle statistiche di cui abbiamo fatto cenno. Come già magistralmente delineato da Giampaolo Barbetta in un articolo di circa vent’anni fa (1999) quando questi temi si presentavano già in forma inquietante, è noto dagli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso (grazie ad una incisiva riflessione di J. K. Arrow, 1963, riflessione che ha fatto scuola) il fatto che quello dell’assistenza sanitaria è un mercato con caratteristiche che si discostano grandemente da quelle previste in Economia dai modelli classici della concorrenza perfetta e dunque è un mercato del tutto particolare, non è un mercato diremmo noi. La natura stessa della “merce” assistenza sanitaria non permette di realizzare, perchè non esistono, le pre-condizioni per calcoli e per strategie di mercato capaci di assicurare il raggiungimento dei risultati di ottimalità (anche dove questa merce è scambiata): la merce assistenza sanitaria è peculiarmente contraddistinta da incertezza nell’incidenza della malattia e incertezza nella efficacia del raggiungimento di un trattamento risolutivo della malattia.

Giampaolo Beretta cita J.K. Arrow: “…le speciali caratteristiche strutturali del mercato dell’assistenza medica sono in gran parte tentativi di superare la mancanza di ottimalità dovuta alla non commerciabilità dell’assunzione dei rischi appropriati e alla commerciabilità imperfetta dell’informazione”; Arrow, pag. 179). E così quando il bene salute è trattato al pari di una qualsiasi merce del mercato si entra nel dedalo dei problemi che l’Economia deve risolvere ogni qualvolta si tratti di fare commercio, se si accetta questa logica diviene naturale che le assicurazioni tentino di risolvere i problemi specifici posti dal trattamento di quella specifica merce: il dedalo è assai intricato e così una volta risolto un problema se ne produce, o se ne acuisce, un altro. Si è riusciti a convincere tanti cittadini che è un bene avere una assicurazione (almeno integrativa) sull’accesso alle cure sanitarie !? Si ! Ebbene si crea il problema “del terzo pagante”. Il cittadino-assicurato/paziente-assicurato aumenta l’utilizzo dei servizi sanitari coperti dal rimborso. Ed allora, a sua volta, l’assicurazione imporrà compartecipazioni alla spesa, massimali nei rimborsi, massimali di deducibilità, premi per la scelta delle cure meno costose, e così via. Per non parlare della disuguaglianza derivante dal (legittimo) calcolo di profittabilità che ciascuna impresa mercantile deve svolgere sulla non offerta di coperture assicurative a certe fasce della popolazione: si pensi agli anziani ove la probabilità di ammalarsi è vicina al 100% o comunque alla selezione dei cittadini (pazienti) che una compagnia assicurativa effettua (ancorchè legittimamente) sulla base della relativa profittabilità dell’offerta assicurativa.

E’ evidente che le pratiche di selezione dei rischi (della tipologia dei cittadini/pazienti) ha conseguenze particolarmente gravi dal punto di vista dell’equità. E così via, come detto sopra è facile vedere come una soluzione (per quanto limitata e non ottimale dal punto di vista dei profitti) ad un problema (economico) ne crei un altro. Si pensi alla ovvia risposta in termini di comportamenti decisionali da parte del cittadino esposto a questo ventaglio di offerte economiche per trattare la propria salute. Sarà naturale, come atteggiamento difensivo, da parte dei cittadini acquistare quelle polizze che si sa a priori di voler utilizzare maggiormente, poichè ciascuno di noi conosce ben meglio dell’agente assicurativo il proprio stato di salute. Le polizze acquistate saranno quelle il cui costo risulterà inferiore alla spesa complessiva che dovrei affrontare per assicurarmi quegli esami diagnostici, quelle cure, e comunque tutti gli interventi sanitari legati al mantenimento del mio stato di salute. In un circolo vizioso, a loro volta le compagnie assicurative reagiscono offrendo contratti più convenienti (ma con copertura  incompleta) ai gruppi meno esposti al rischio di malattia, e così via in un carosello incessante di azioni, reazioni, contro-reazioni, sviluppo di nuove fantasiose offerte, etc, etc, sempre inseguendo il profitto e dimenticando chi non può permettersi alcun tipo di polizza.

E’ molto probabile che se si passasse dalla logica della soddisfazione della domanda (di mercato) a quella della soddisfazione dei bisogni (reali) anche le politiche allocative assumerebbero connotati diversi, evitando il rischio che la logica delle domande (di mercato) diventi un paravento per alimentare in modo autoreferenziale l’offerta (di mercato) esistente. In altre parole, la “merce” assistenza sanitaria non è scambiabile sui mercati come è possibile fare con altre merci. Punto. Questa conclusione va detta chiaramente. Una società di cittadini informati e consapevoli deve poter pretendere di sentire dai propri decisori politici parole che siano il frutto di questa consapevolezza: forse che l’investimento in spese militari e legate alla difesa produce un ritorno economico!? NO! Ci assicura di avere la tranquillità psicologica (una tranquillità fallace, non una reale tranquillità) che se si verifica un evento avverso la comunità saprà difenderci da….aggressori; e con questa tranquillità giustifichiamo un investimento non produttivo, con bilancio negativo. Ebbene, perchè mai questo ragionamento, questa assunzione non deve valere per assicurarci una realistica tranquillità, una certezza, che l’inevitabile prodursi di aggressioni alla nostra salute da parte della nostra essenza biologica troverà una risposta nel sicuro intervento dello stato sociale? Si,…è questo un ragionamento alla Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (quando dialogano con il Re Alboino) ma proprio per questo dovrebbe essere ben comprensibile anche ai vari decisori politici del tutto, o quasi, digiuni di medicina.

Da Kant a cant

Gli economisti (e gli econofisici) insistono sul fatto che ogni qualvolta si cerchi di ottenere una maggiore giustizia nella redistribuzione della ricchezza si incorre in un abbassamento dell’efficienza del mercato e considerano efficienza ed equità come termini di un conflitto tra due obiettivi per cui il perseguimento del primo compromette il secondo. Il che sarà certamente vero ma proprio per questa ragione sarebbe doveroso sganciare ogni ragionamento di efficienza di mercato, se si tratta di salute, dai processi tesi ad assicurare un’equo accesso alle cure da parte di tutti i cittadini. Se non sono possibili compromessi tra valori, equità vs efficienza, se l’assicurare un’equa opportunità di accesso alle cure è incompatibile con l’efficienza (economica) del mercato delle cure non resta altra scelta. Comunque dovrebbe prevalere l’idea di un doveroso tentativo di trovare un buon compromesso tra equità dell’accesso (per tutti) e efficienza del processo intesa non più come efficienza per raggiungere un profitto ma efficienza in senso di evitare sprechi e ottimizzare il processo di accesso alle cure.

Per non dire del fatto che si può ben criticare l’idea che efficienza e equità siano due valori contraddistinti dalla stessa posizione gerarchica in quanto a essere obiettivi primari del buon vivere: efficienza è, a nostro giudizio, certamente un obiettivo secondario. Obiettivi superiori (equità) possono essere perseguiti con un grado di maggiore o minore efficienza assegnando così all’efficienza lo stato di obiettivo secondario che acquisisce un senso soltanto in riferimento alla funzione di perseguire al meglio l’obiettivo primario dell’equità. Appare chiara, ed a noi pare incontrovertibile, l’idea che esista una incommensurabile posizione gerarchica tra il valore equità (di cura, di salute, di buon vivere) e quello di efficienza e quindi non è possibile immaginare di poter trovare un compromesso (elaborato come scelta sociale da parte dello Stato) che giustifichi alcuna forma di scambio, tra un valore superiore ed uno inferiore. Ogni forma di scambio, sancendo uno svilimento, una degradazione dei valori superiori, sarebbe da considerarsi ingiusta, immorale. Kant (Fondazione della metafisica dei costumi. Regno dei fini) permette di distinguere tra prezzo e dignità: “….tutto ha o un prezzo o una dignità. Se ha un prezzo, il suo posto può essere preso da un’altra cosa equivalente; se viene elevato al di sopra di qualunque prezzo, e non ammette alcun equivalente, ha una dignità. Da questo punto di vista il valore della vita umana è incommensurabilmente superiore a tutti gli equivalenti putativi: supporre che tali valori possano venire scambiati significa profanarne la sacralità”.

E’ evidente che l’imperativo kantiano si rivela  impercettibilmente, ma assai facilmente, capace di scivolare nell’ipocrisia, nel discorso ipocrita (cant) come scherzosamente abbiamo indicato nel titolo del paragrafo. Tutti i giorni nella amministrazione della pratica medica attribuiamo risorse (mediche) scarse a vantaggio del trattamento terapeutico di alcuni a spese di altri che possono anche morirne. Non spendiamo grandi somme per salvare o prolungare vite che traggono poco o nulla dalla propria continuazione e lasciamo che queste scelte vengano fatte dalla pubblica amministrazione con ciò non ritenendoci responsabili della violazione dell’imperativo kantiano: sono decisioni prese a livello impersonale e di tipo professionale. Certamente il prendere sul serio in campo sanitario il valore equità presuppone il sapersi spogliare dei propri vantaggi. Il perseguire equità in un contesto di razionamento delle risorse porta sempre più spesso ad ascoltare parole vuote, prive di reale significato, grazie alle quali le posizioni più diverse vengono giustificate.

In condizioni di modesta (o assenza di) pressione per il contenimento dei costi può realizzarsi una forma di giustizia redistributiva con la fornitura di servizi non remunerativi offerti a soggetti privi di ogni forma di assicurazione. Chiaro che ove si realizzi una competizione tra non-profit e profit nel soddisfare la domanda di salute le organizzazioni non-profit tendono (sono costrette) ad adottare le stesse strategie delle imprese a fine di lucro: è questo l’aspetto che va rifiutato, l’idea stessa che le organizzazioni non-profit finiscano per appiattirsi sullo stesso orizzonte culturale delle imprese per profit, si debbano adagiare su un orizzonte di puro mercato (magari con la selezione dei pazienti più redditizi) rinunciando alla propria vocazione istituzionale di riparare con un sistema di gratuità nei servizi di assistenza sanitaria per coloro che sono già stati colpiti dall’ingiustizia della sorte per azione della roulette genetica della riproduzione (la gettatezza di Heidegger, noi ora siamo qui a dibattere di questi problemi e non su un gommone al largo di Lampedusa). Finendo così per assomigliare sempre di più alle imprese a fini di lucro operanti nella sanità. Il non aver saputo accettare nelle decadi passate i sistematici disavanzi nella gestione del servizio sanitario nazionale come un inevitabile correlato, come una delle caratteristiche costitutive del sistema ha fornito le motivazioni per sviluppare strategie di intervento per la riduzione dei trasferimenti erariali alle Regioni e per aumentare il grado di autonomia delle Regioni stesse in materia fiscale.

Il federalismo fiscale avrebbe dovuto sviluppare e garantire una maggiore disciplina finanziaria delle Regioni ma a fronte del promesso guadagno di efficienza del sistema ha solo innescato dei processi differenziativi dei livelli di servizi forniti alle varie comunità del territorio nazionale: risulta evidente a tutti che l’ampliamento dell’autonomia regionale in materia fiscale mette a rischio uno dei princìpi cardine del sistema sanitario nazionale: l’uniformità delle prestazioni sanitarie sul territorio nazionale. Come volevasi dimostrare, purtroppo, nel volgere di queste ultime decadi il rischio paventato si è rivelato una insopportabile realtà cosi’ come ben delineata e discussa nel documento elaborato dal Comitato di Bioetica della Fondazione Umberto Veronesi sopra citato.

Siamo dunque ben lontani dal realizzare il dettato costituzionale che prevede l’attuazione del diritto alla salute per tutti i cittadini, così come anche il sistema sanitario nazionale ha più volte dichiarato di recepire tra i propri principi costitutivi al fine di “…garantire i livelli di prestazioni sanitarie in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, eliminando progressivamente le differenze strutturali e di prestazioni esistenti tra le Regioni (art. 51, l.n. 833/78)”. Al rovescio, quello che pareva solo un rischio si è materializzato con la elaborazione di concezioni regionali dei diritti sociali assai difformi tra loro, si pensi al frutto delle elucubrazioni di alcune formazioni politiche ed a quanto questo sia stato capace di minare direttamente la capacità dello Stato di imporre criteri generali per la gestione del sistema sanitario nazionale.

Non vi è dubbio che esistano sprechi derivanti da inefficienze di processo (inappropriatezza organizzativa) e di tecniche (sprechi nell’uso di risorse) e ciò determina un eccesso di domanda di sanità, domanda che diverrà sempre più un fattore cruciale per la gestione della salute in vista dei cambiamenti nelle strutture demografiche delle popolazioni: basti pensare agli effetti dell’invecchiamento della popolazione (non autosufficienza = richiesta di assistenza) e a quello dell’ampliamento delle possibilità di cura grazie ai risultati dei progetti di sequenziamento di centinaia di migliaia di genomi umani (medicina di precisione). Entrambi questi fattori costituiscono “bombe ad orologeria” capaci di far saltare del tutto l’obiettivo “eguaglianza di salute” se non opportunamente governati a livello centrale: se lasciati nelle mani di decisori politici, espressione di interessi e potentati economici, questi ultimi non potranno che fare l’interesse di lobbies di imprese mercantili (che non sono imprese di beneficenza) ammantando il proprio operato sotto il velo di parole chiave capaci di muovere l’emotivita’ di cittadini privi di difese culturali.

Anche il corso di quest’anno vuole contribuire alla crescita di quella cittadinanza scientifica sulla quale insistiamo da decenni attuando la terza missione dell’Università, con le tante iniziative che svolgiamo da tempo per portare la scienza nella società (di una siamo poi particolarmente orgogliosi, le presentazioni di temi biologici svolte presso il carcere di Torre del Gallo, qui in Pavia: per parlare di scienza anche a coloro che ne sono veramente esclusi). E dunque per rendere chiaro che le trasformazioni scientifiche (che tanto devono al paradigma darwiniano) occorse negli ultimi due secoli, dopo il secolo della chimica (‘800) e quello della fisica (‘900), hanno fatto si che le scienze della vita (Biologiain primis, con la Medicina) abbiano permesso un passaggio epocale di paradigmi concettuali: le scienze della vita non sono più solo discipline “storiche” della descrizione ontogenetica del vivente ma sono bensì passate “dalla descrizionealla sintesi del vivente”.

Questo fatto rivoluziona tutte le discipline (dalla filosofia alla antropologia, dalla economia alla giurisprudenza nessuna disciplina resta immune, ancor meno la Medicina per le ovvie radici biologiche) e le pratiche del nostro vivere (da come ci si riproduce al fine vita, dalle trasformazioni del corpo al “di chi è il corpo, di chi sono le cellule?”, dalla cultura del dono ai brevetti sul vivente) divengono biopolitiche. Ne consegue che solo cittadini capaci di scegliere, in autonomia, cosa si ritiene lecito applicare delle tante innovazioni prodotte dalla ricerca biologica sono in grado di assicurare un armonioso vivere sociale, sono capaci di combattere le ingiustizie e le iniquità, l’esclusione dei molti a favore dei pochi.

L’inclusione attraverso la garanzia dei diritti sociali, il libero associazionismo, la riorganizzazione degli apparati statali secondo principi antiautoritarii e la fioritura di nuovi diritti civili si allargano e si arricchiscono perseguendo la nozione di cittadinanza scientifica, che va ben al di là delle dichiarazioni di cittadinanza della rivoluzione americana con Jefferson e di quella francese. Per essere oggi cittadini a pieno titolo e partecipare al governo delle cose è necessario possedere una “minima” base di conoscenze scientifiche. La cittadinanza scientifica si connota poi in ultima analisi come un esercizio di cittadinanza attiva: partecipare significa essere e sentirsi parte di una comunità aperta, sapere di contare nei processi attraverso cui si prendono le decisioni, poter controllare e mettere in discussione l’esercizio del potere. E così partecipazione e autogoverno sono le due premesse fondamentali della democrazia moderna che è una democrazia “cognitiva”, la sola capace di promuovere l’equità tra i suoi partecipanti.

Due aforismi ci paiono particolarmente pertinenti e capaci di inquadrare i temi del cors odi quest’anno, l’uno di William Shakespeare:

Il misero non ha altra medicina che la speranza

e l’altro di Georg Christoph Lichtenberg (1742 – 1799):

L’eguaglianza che noi esigiamo è il grado più sopportabile della disuguaglianza.

Ricordando poi che:

L’uomo è inguaribile perchè inevitabilmente mortale

(Italo Svevo: La coscienza di Zeno, 1923)

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