Fenomenologia dei disturbi alimentari

I Disturbi dell’Alimentazione (DA) sono piuttosto frequenti in Italia (0,3% per l’anoressia e 1% per la bulimia) come in tutti i Paesi occidentali, tanto da calamitare l’attenzione di specialisti del settore e non, divenendo anche oggetto di dibattito in TV, protagonisti di inserti speciali su famosi settimanali, figuranti in campagne di sensibilizzazione tra i banchi di scuola. Molto ruota intorno ai DA, tra cui anche alcuni miti da sfatare.

 

Cosa sono esattamente i DA?

La definizione, che raccorda e guida la classe medica è riportata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 5 (DSM5) in cui si fa riferimento a una classe di disturbi “caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione oppure da comportamenti inerenti l’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo e che compromettono significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale”. In particolare, i DA sono distinti in tre quadri diagnostici: Anoressia Nervosa (AN), Bulimia Nervosa (BN) e il disturbo da Binge-Eating (BE). Un’ulteriore eterogenea categoria è rappresentata dai “disturbi dell’alimentazione con altra specificazione” in quanto, pur presentando una sintomatologia clinica vicina ai DA, non soddisfano pienamente i criteri per nessuno di essi.

Oggetto di particolare interesse clinico e sperimentale, l’AN si pone come il disturbo alimentare maggiormente studiato e conosciuto. Fu descritta la prima volta dal medico inglese Richard Morton nel 1694 fino a porsi, a oggi, come una patologia che colpisce soprattutto la popolazione occidentale, risultando, invece, rara nei Paesi in via di sviluppo. Sebbene l’etimologia della parola “anoressia”, che dal greco ana, cioè senza, orexis indicherebbe brama, desiderio, appetito, quest’ultimo più che venire a mancare – come comunemente si può pensare – viene esageratamente controllato al fine di mantenere il peso preferito. Una persistente restrizione nell’assunzione di calorie è, infatti, uno dei segni clinici caratterizzanti il disturbo, unitamente all’intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi nonché alla presenza di una significativa alterazione della percezione di sé rispetto al peso e alla forma del corpo. Gli individui con AN riportano un indice di massa corporea indicativo di un significativo sottopeso. Nonostante ciò, però, nutrono la terrificante paura di ingrassare che si associa a una marcata insoddisfazione del proprio peso e delle forme corporee, con particolare rilevanza per alcune zone rispetto ad altre che, come la pancia, il sedere, le gambe e il seno, sono oggetto di particolari preoccupazioni. Le dimensioni del proprio corpo nonché il peso assumono particolare rilevanza per l’individuo con AN in quanto gettano le basi per la valutazione di sé, della propria autostima in una sorta di relazione inversamente proporzionale tra peso e valore personale: quanto più peso tantomeno valgo. L’aumento di peso è da evitare a tutti i costi proprio per non precipitare in dolorose sensazioni di frustrazione e autosvalutazione. Per mantenere un adeguato senso di autocontrollo e di autostima è necessario che il peso rimanga sotto la norma e ciò lo si ottiene restringendo l’alimentazione, ma anche con un’intensa attività fisica e con vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi e diuretici o enteroclismi. Quello che, invece, sino a poco fa si poneva come ulteriore segno clinico di AN, ossia l’amenorrea (la mancanza di tre cicli consecutivi), a oggi non sembra essere necessario per porre diagnosi in tal senso. Rimane, comunque, un segnale di cui sospettare se si presenta in un quadro di restrizione alimentare. Spesso insorgono complicanze mediche dovute alla prolungata denutrizione.

La Bulimia Nervosa, invece, con esordio in adolescenza o tarda età adulta, presenta episodi di abbuffate. In particolare, ogni singolo episodio di abbuffata si caratterizza per due aspetti peculiari: il consumo di una grande quantità di cibo e la sensazione di perdita di controllo. Ciò che contraddistingue le abbuffate è l’anomala quantità di cibo consumato solitamente in solitudine e di nascosto, e, soprattutto, finché non si raggiunge una sensazione di sgradevole pienezza. Le abbuffate sono accompagnate dalla sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o controllare cosa e quanto si sta mangiando tanto che alcuni individui riportano un senso di estraniamento, e sono seguite da disgusto per se stessi e senso di colpa. Un secondo criterio distintivo della BN sono le condotte compensatorie, finalizzate a prevenire l’aumento di peso, tra cui il vomito autoindotto, l’assunzione di grandi quantità di lassativi e diuretici ma anche il digiuno e un’eccessiva attività fisica. Affinché tale pattern comportamentale si associ a una diagnosi di BN, le abbuffate e le condotte compensatorie devono verificarsi almeno una volta la settimana per tre mesi.

Il disturbo da Binge Eating si sovrappone parzialmente alla BN e si caratterizza principalmente per i ricorrenti episodi di abbuffata, presenti almeno una volta a settimana per almeno tre mesi, unitamente alla sensazione di perdita di controllo. Contrariamente alla BN, invece, nel BE non si rilevano condotte compensatorie né tantomeno un’alimentazione di tipo restrittivo.

Alcune considerazioni suggeriscono che la distinzione tra diversi tipi di DA sia ingiustificata perché AN, BN e BE sarebbero espressioni diverse dello stesso disturbo. Infatti i DA sembrerebbero accomunati dalla tendenza a giudicare il proprio valore come dipendente esclusivamente dal peso e dalle forme corporee, e dalle conseguenti preoccupazioni che permeano tutta l’anomala condotta comportamentale. A ciò si aggiunge la cosiddetta migrazione che contraddistingue il decorso dei DA: nel corso della vita, spesso, i pazienti passano da un disturbo alimentare all’altro. Tutto ciò rende la distinzione diagnostica difficile e problematica tanto da sostenere una visione transdiagnostica, che considera i DA come facenti parte della medesima categoria.

I DA si pongono come un’importante problematica della società in cui viviamo. Interessante il modo in cui la società si interfaccia con essi. L’atteggiamento sociale è di critica e stigmatizzazione dei chili in eccesso. Ne sanno qualcosa gli individui affetti da obesità, la cui immagine fisica si sostituisce a qualsiasi biglietto da visita, anche al più illustre. Il sovrappeso e, ancor più, l’obesità si misurano, infatti, con un atteggiamento sociale di tipo discriminatorio volto a puntare il dito verso il girovita lievitato sinonimo di pigrizia, sciatteria, poca forza di volontà e chi più ne ha più ne metta. La stigmatizzazione dell’obesità riceve conferma sperimentale. Vi sono, infatti, studi che riportano come l’obesità moduli in termini negativi il giudizio di un candidato per una posizione lavorativa, se vicino a una donna obesa rispetto alla vicinanza a una donna normopeso (Hebl 2003). Ancor più, la stigmatizzazione dei chili in eccesso modulerebbe anche il modo in cui percepiamo gli odori. Un interessante studio (Incollingo Rodriguez 2015) ha, infatti, dimostrato che osservare immagini di persone obese mentre odorano delle sostanze (senza odore alcuno) ha l’effetto di percepire queste ultime come sgradevoli rispetto alla condizione in cui si osservano immagini di persone normopeso. L’altra faccia di questo stigma, socialmente accettato, la si ritrova nella speculare tendenza ad accettare e, ancor più, ammirare la magrezza: pancia piatta, vita stretta e gambe snelle rappresentano un corpo magro e filiforme che ci viene rimandato di continuo come protagonista indiscusso di un immaginario promozionale, oggetto estetizzato da osservare e, soprattutto, a cui aspirare e tendere. Ed ecco che viene messo in piedi il modello stereotipato del bello al femminile, costantemente propinato dai mass media tanto da porre questi ultimi in un rapporto di causazione con l’AN. È opinione diffusa, infatti, che l’influenza dei mass media sulle adolescenti sia determinante nel favorire la comparsa di tale disturbo. La ragazza adolescente mira a conformarsi a tutti i costi ai canoni di bellezza socialmente desiderabili pur di aderire alla logica di una società in cui mostrarsi e apparire (magre) si pone in relazione identitaria con essere (belle e di alto valore personale). Il patinato ideale di magrezza sarebbe, quindi, associato frequentemente alla bellezza e al valore della persona, fino a quando nella mente dell’adolescente non si crea una stretta associazione che genera il cosiddetto “mito della modella”. A favore di tale ipotesi, diversi studi, sembrano sostenere l’influenza dei modelli di riferimento sulla popolazione più giovane. Nello specifico, l’influenza di personaggi con caratteristiche sociali rilevanti e positive, amate e desiderate dal pubblico spingerebbe l’adolescente a porsi questi ultimi come modelli comportamentali tanto che alcuni Paesi hanno adottato delle misure di sicurezza per contrastare tale processo. Per esempio, Israele ha legiferato in merito per poter arginare il problema attraverso misure che vietino la partecipazione di donne eccessivamente magre alle sfilate di moda; o, ancora, la recente proposta di legge francese suggerirebbe una dichiarazione che renda esplicita la manipolazione di materiale fotografico volta a rendere le donne ancora più magre.

 

È davvero importante il ruolo dei mass media nel causare la AN?

Alcuni spunti di riflessione possono, a nostro avviso, porre la questione in una cornice di spiegazione più complessa. L’AN è notoriamente considerata la malattia del XX secolo, come a voler esaltare e stressare l’importanza rivestita dalla contraddittoria società occidentale che, se da un lato aderisce tout court alla logica del consumismo, dall’altro si lustra di un’ideale di bellezza dettato dalla perfezione fisica intesa come magrezza. Ma se figlia del XX secolo, l’AN non avrebbe dovuto lasciar traccia in epoche passate che reggevano su dinamiche del tutto speculari a quelle della società odierna. Eppure, l’AN ha origini ben più antiche. Già nel periodo medioevale, infatti, si rinvengono segnali di eclatanti casi di digiuni nonché di mistificazioni del corpo atte al raggiungimento della purezza, come nel caso delle “sante anoressiche”. La più celebre tra tutte è la storia di Santa Caterina da Siena la quale trascorse gran parte della sua breve vita “cibandosi” solo di eucarestia in nome della purificazione da ogni peccato. Vissuta in un contesto di vita medievale fortemente limitante per le donne, Caterina ebbe un rapporto molto conflittuale con la sua famiglia. A tal proposito, si narra che “… per non dare scandalo prendeva talvolta un poco d’insalata e un po’ di legumi crudi e di frutta e li masticava, poi si voltava per sputarli. E se per caso ne inghiottiva anche un solo minuzzolo, lo stomaco non le dava requie finché non l’avesse rigettato… era solita stuzzicarsi la gola con uno stelo di finocchio o con una piuma d’oca, fino a che non si fosse sbarazzata di quanto avesse inghiottito” (Uboldi 1995). Il conflitto di Caterina sembrerebbe piegarsi non tanto al raggiungimento di un ideale di perfezione fisica quanto al desiderio di farsi accettare in quelle che erano le sue scelte che si traducevano in un bisogno di autonomia e che si ponevano in conflitto con le aspettative dei genitori. In tal senso, la “santa anoressia” si delinea come l’unico mezzo per riappropriarsi di se stessa e uscire da un destino segnato dal volere della famiglia (Reda e coll. 1996). Da quanto appena emerso, appare chiaro che l’anoressia è un disturbo svincolabile dal mero ideale di bellezza introiettato attraverso modelli fuorvianti. Una conferma indiretta ci viene data dagli studi su individui congenitamente ciechi. La letteratura (Kocourkova e coll. 2011) riporta, a tal riguardo, casi di persone affette da cecità congenita con diagnosi di AN. In questa sede, facciamo riferimento al single case di una ragazza diciannovenne, che sebbene non avesse subito l’influenza visiva di modelli cui ispirarsi a causa del deficit visivo, mostrava tutte le caratteristiche peculiari dell’AN. Nello specifico, oltre a un basso indice di massa corporea unitamente a condotte alimentari di tipo restrittivo, la ragazza mostrava alterazioni del modo di percepire il peso e le forme del corpo pur non essendosi mai interfacciata visivamente con modelli di riferimento mediatico.

Molti di voi si staranno domandando, quindi, come è possibile che anche persone cieche dalla nascita possano avere una percezione alterata delle forme del proprio corpo. Per rispondere a tale domanda, le neuroscienze volgono la propria attenzione all’indagine di come il cervello rappresenta il corpo. In particolare, il nostro cervello lavora al fine di assicurarci una costante e affidabile consapevolezza corporea. E ciò è reso possibile grazie all’esistenza di un network cerebrale, coinvolgente cortecce primarie e associative, che lavora integrando informazioni provenienti dai diversi sensi (in particolare, vista, tatto e udito) al fine di rappresentare il corpo a vari livelli. Si avranno così diverse rappresentazioni mentali corporee (dall’inglese Mental Body Representations, MBRs), risultato della complessa elaborazione cerebrale di informazioni relative al corpo provenienti dai diversi sensi. Tra le varie rappresentazioni, una in particolare è strettamente connessa con la grandezza delle varie parti corporee ed è, pertanto, nota come body size representation che come tutte le MBRs è dinamica e plastica, modificabile dall’esperienza. E, nel caso dell’AN, si mostra particolarmente alterata tanto da tradursi nosograficamente in uno dei criteri fondamentali per porre diagnosi in tal senso. Individui con AN tendono, infatti, ad avere un’alterata rappresentazione del proprio corpo (in particolar modo di zone corporee come la pancia, il sedere, le cosce) tanto da sovrastimarne sistematicamente la grandezza. A nutrire il funzionamento di quest’importante network cerebrale, mantenendo alterate le MBRs, concorrono diversi errori sistematici (biases cognitivi) nei processi di valutazione e di giudizio che ognuno di noi compie nel dare a essa significato alla propria esperienza. Tra questi, un bias che, negli ultimi anni, ha attirato l’attenzione dei ricercatori è quello attentivo che, nella fattispecie, si verifica quando “avviene un discreto cambiamento nella direzione in cui una persona focalizza la sua attenzione, fino a quando prende consapevolezza di una particolare parte o aspetto di alcuni stimoli ambientali” (Williams 1997). Nel caso dei DA, però, il bias attentivo sembra assumere particolare rilevanza perché spiega la tendenza della paziente con AN a focalizzarsi su tutte le informazioni concernenti il corpo, magnificandone cosi le preoccupazioni per i rispettivi peso e forme. A tal proposito, è stato osservato come pazienti con AN (e BN) prestano attenzione in modo selettivo verso parole che denotano una grassezza fisica, ma tendono a evitare parole che denotano invece una magrezza. In un altro studio effettuato su una popolazione analoga (Placanica e coll. 2002), sono stati esplorati gli effetti del digiuno sul bias attentivo con parole sul cibo, immagine corporea e peso. Tutti i partecipanti hanno dimostrato un bias attentivo specifico per parole di cibi a basso contenuto calorico. Individui con elevata insoddisfazione per il proprio corpo tendono a viziare l’elaborazione di informazioni inerenti il corpo attraverso una serie di bias cognitivi. E quello attentivo non è il solo. Troviamo, per esempio, la tendenza da parte della paziente con AN a dare una valutazione di se stessa negativa e globale basata esclusivamente su informazioni relative alla alimentazione (“Ho mangiato più calorie del dovuto, quindi non valgo nulla come persona”). La tendenza a generalizzare agisce sullo sfondo di uno schema disfunzionale di autovalutazione, che la paziente con AN possiede. Tale schema è di primaria importanza nel mantenimento del disturbo tanto che la maggior parte delle altre caratteristiche deriva da questo core psicopatologico. La valutazione che la paziente fa di se stessa si basa esclusivamente sul peso o sulle forme corporee o sul controllo dell’alimentazione, a discapito di una valutazione che generalmente avviene tenendo conto di vari domini di vita come la scuola, il lavoro, le relazioni interpersonali, le abilità intellettuali e cosi via. Ma non finisce qui: oltre al noto bias del “doppio standard” per cui la paziente ricorre a standard esigentissimi per valutare se stessa, contrariamente a quelli più flessibili con cui valuta l’altro; tipico dei pazienti con AN è, ancora, il pensiero “tutto o nulla” caratterizzato da una dicotomia del modo di ragionare per la quale non si considerano punti intermedi tra un estremo e l’altro (“o la mia pancia è piatta oppure sono grassa e deforme”). Nel tentativo di descrivere le dinamiche di mantenimento dell’AN, si debbono considerare anche altri fattori. A tal riguardo, troviamo il perfezionismo clinico, vale a dire l’intolleranza per errori, inadeguatezze e imperfezioni, anche di scarsa importanza, in almeno uno dei domini di vita, come per esempio lo studio. A complicare il quadro, vi è spesso una valutazione negativa di sé più globale e che pervade permanentemente l’identità e anche una scarsa tolleranza alle emozioni che aggravano e mantengono il quadro clinico.

 

Qual è il probabile nucleo psicologico che genera e mantiene i DA?

Premesso che il condizionale è d’obbligo, l’organizzazione psicologica nell’AN sembrerebbe strutturarsi sulla base di credenze del tipo “L’unico modo per avere la gestione della mia vita e affermare la mia autonomia è esercitare un controllo sull’assunzione di cibo” oppure “Sono amabile e valgo solo se sono magra… è assolutamente necessario che io sia magra!” o, ancora “Sono padrona di me solo se riesco a controllare il mio peso e le mie forme corporee”. Appaiono di grande importanza per la paziente anche la ricerca di indipendenza rispetto alla famiglia, in particolare dalle aspettative dei genitori, per cui il rifiuto del cibo è un modo per ritagliare una sfera di autonomia e differenziazione nel sistema familiare, la ricerca di un senso di autoefficacia, attraverso l’autoimposizione delle restrizioni alimentari e il controllo di istinti potenti come la fame, la ricerca di una sensazione di purezza, l’evitamento delle imperfezioni, soprattutto rispettando rigorosamente la dieta.

 

Come intervenire?

Gran parte della ricerca riguarda trattamenti cognitivo-comportamentali della BN. Come precedentemente accennato, essendoci un pattern migratorio tra i vari DA sono stati fatti tentativi (Fairburn 2003, Dalle Grave 2003) al fine di sviluppare trattamenti cognitivo comportamentali transdiagnostici. Apportando minime modifiche rispettivamente per ogni disturbo, il trattamento transdiagnostico sembra adattarsi a tutti i DA e può essere adottato sia in ambito ambulatoriale che residenziale, richiedendo la presenza di equipe multidisciplinari (psicologi, medici, nutrizionisti) nel caso di quadri particolarmente gravi. Nella fattispecie, il trattamento prevede una prima fase durante la quale vengono affrontati i problemi riguardanti alimentazione, il peso, le abbuffate e le condotte compensatorie; mentre, nel secondo step si affrontano le problematiche psicologiche inerenti l’adozione di uno schema di autovalutazione disfunzionale nonché tutti gli altri fattori di mantenimento aggiuntivi. Il trattamento individuale è coadiuvato dalla terapia familiare per pazienti con età inferiore ai 18 anni al fine di individuare e mediare dinamiche familiari conflittuali, che si pongono come ulteriori fattori di mantenimento.

 

Bibliografia

Biondi M. (a cura di), American Psychiatric Association, DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano, 2014.

Dalle Grave R., Il primo passo per perdere peso. Informazioni sulla terapia cognitivo comportamentale dell’obesità, Positive Press, Verona, 2003.

Fairburn C.G., Cooper Z., Shafran R., Cognitive behaviour therapy for eating disorders: a ‘transdiagnostic’ theory and treatment, Behav Res Ther., 2003, 41,pp. 509-528.

Hebl, M. & Mannix, L., The weight of obesity in evaluating others: A mere proximity effect, Personality and Social Psychology Bulletin, 2003, 29, pp.28-38.

Incollingo Rodriguez A.C., Tomiyama A.J. & Ward A., What does weight stigma smell like? Cross-modal influence of visual weight cues on olfaction, International Journal Of Obesity, 2015.

Kocourkova J., Soltysova M., Mohaplova M., Hrdlicka M., Anorexia nervosa in a blind girl, Neuro Endocrinol. Lett., 2011, 32(6), pp. 748-50.

Morton R., Phthisiologia or a treatise of consumptions, Sam Smith and Benj, Walford, London, 1694.

Reda M., Sacco G., Anoressia e santità in S. Caterina da Siena, in Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria, n. 26, 1996, pp. 3-10.

Placanica J.L., Faunce G.J. & Job R.F.S., The effect of fasting on attentional biases for food and body/weight words in high and low eating disorder inventory scores, International Journal of Eating Disorders, 2002, 32, pp. 79-90.

Williams J.M.G., Watts F.N., MacLeod C., Mathews A., Cognitive psychology and emotional disorders, 2nd ed. Wiley, Chistester, 1997.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo