Migranti, da sempre

Le popolazioni umane migrano, per necessità o per scelta, da milioni di anni. È così che ci siamo evoluti. Homo sapiens ha conquistato una libertà di migrare che riguarda potenzialmente ogni individuo della specie, libertà affermata dalla Dichiarazione universale dei diritti umani firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. Ora l’Onu ha approvato, il 27 settembre 2015, 17 obiettivi di sviluppo sostenibile fino al 2030: per la prima volta un target riguarda i flussi migratori, l’obiettivo è gestire politiche migratorie sostenibili, facilitare “orderly, safe, regular and responsible migration”. Oggi occorre affrontare la questione delle migrazioni forzate, quelle politiche e quelle climatiche.

Dunque siamo immigrati tutti per arrivare qui, siamo migranti da sempre! Telmo Pievani ci ha più volte splendidamente raccontato le migrazioni di tutte le specie umane fin da prima che cominciassimo a cucinare, parlare, leggere, scrivere e avessimo una qualche geografia del pianeta. Quasi duecentomila anni fa i primi della specie sapiente eravamo in un’area di quella che oggi si chiama Africa orientale, decine di migliaia di anni dopo siamo emigrati altrove. A ondate, ovunque, non abbiamo mai smesso. Dovremmo pubblicare un libro a quattro mani nel 2016 su tutti gli spostamenti dagli ominidi a Homo Sapiens, dall’ultima glaciazione a oggi, dal primo naufragio a questi ultimi. Lui è propriamente uno scienziato, io mi sono affaticato a lungo, nei luoghi di studio e lavoro e nei luoghi istituzionali, di scienza della politica, una scienza per definizione poco “equilibrata”. In questa sede mi limiterò quindi a pochi appunti a margine alla sua lezione.

Vi vorrei segnalare innanzitutto che in quasi tutti i vostri certificati anagrafici c’è scritto che voi siete migrati e migranti. Basta aver modificato una volta comune di residenza e questo viene scritto nella documentazione ufficiale di entrambi i comuni, siete formalmente immigrati ed emigrati, sarà scritto nel vostro certificato di residenza da dove provenite. Le anagrafi consegnano certificati di emigrazione e monitorano il movimento migratorio della popolazione sia a fini civili che a fini statistici. Dal punto di vista dell’Onu e delle statistiche internazionali sono migrati coloro che vivono in un altro Stato e c’è un vincolo temporale, da più di un anno; le migrazioni interne non sono contabilizzate e rilevano solo per gli ordini di grandezza. Dal punto di vista del diritto internazionale la situazione è ancor più complessa: i “confini” istituzionali chiamano in causa regole e diritti molto diversi.

Non tutti lo sanno, molti non sempre lo ricordano, quasi mai chi lo sa lo dice. La Dichiarazione Universale dei diritti umani contempla il diritto alla libertà di movimento e di migrazione. Freedom of movement and residence, cose diverse e connesse. Il primo comma dell’articolo 13 dichiara che “ogni individuo” ha il diritto di muoversi e risiedere “entro i confini di ogni Stato” (ecco anche una libertà individuale e collettiva di migrazione interna al singolo stato nazionale). All’art. 29 si aggiunge che eventuali limitazioni devono essere stabilite dalla legge per rispettare eventuali diritti e libertà di eventuali altri. Il secondo comma dell’articolo 13 dichiara che “ogni individuo” può liberamente lasciare il proprio paese e ritornarvi, lasciare “qualsiasi paese” e ritornare nel “proprio” (ecco anche una libertà individuale e collettiva di migrazione esterna e generale, come andata, come ritorno, come andata senza ritorno, come andata con ritorno). Libertà di partire, diritto di restare. Diritti umani in patria, libertà di migrare altrove.

Segnalo qui subito una conseguenza implicita. Una migrazione forzata è di norma arbitraria e vietata, transitoriamente ammissibile se proprio si vuole solo in casi eccezionali, in sostanza quando non c’è alternativa alla necessità immediata di spostare qualcuno. L’articolo successivo contempla il diritto di asilo. Il primo comma dell’articolo 14 dichiara che “ogni individuo” è libero di “cercare e di godere” asilo “dalle persecuzioni” in paesi “altri” rispetto a quello o quelli dove sono perseguitato. Diritto di asilo, dovere di assistenza. La Dichiarazione Universale dei diritti umani (1948), la specifica Convenzione di Ginevra e l’apposito Alto Commissariato dell’ONU (1951) riconoscono, affrontano, in parte risolvono la condizione di chi chiede asilo e si vede poi anche riconosciuto lo status di rifugiato, una popolazione costituita soprattutto da donne e bambini, che per lo più trova assistenza (internazionale) in paesi limitrofi, nell’80% in paesi in via di sviluppo (poveri). La Convenzione non è stata ratificata da tutti gli stati membri dell’ONU, siamo ancora solo a tre quarti (fra le circa 150 parti non ci sono gli USA).

E qui c’è un grave problema. Asilo si può dare solo a chi è perseguitato nel proprio paese (cosa giustissima), “riconoscendolo” come refugee (cosa giustissima), ma non ad altri migranti forzati. Esistono? Si esistono! Nella motivazione del Premio Nobel per la Pace 2007 (ad Al Gore e al gruppo di scienziati dell’International Panel on Climate Change) e nella recente Enciclica papale (al punto 25) si sottolinea il nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate e si ricorda che oggi il rifugiato climatico non ha riconoscimento giuridico. Parliamo di grandi numeri. Da una decina di anni vari organismi scientifici e dell’Onu ripetono che saranno circa 250 milioni i rifugiati climatici entro il 2050, pure nello scenario migliore (e qualcuno sostiene entro il 2030). Noi stessi non sempre teniamo in debito conto questi dati della realtà, c’è confusione nel discutere di migranti liberi e migranti forzati, di rifugiati politici, di rifugiati climatici e di profughi ambientali, un po’ tutti sottovalutiamo i grandi sconvolgimenti sociali in corso. Perché è questione di scienza e di diritto internazionale quella dei rifugiati climatici anche se la fuga non comporta il superamento immediato del confine del proprio paese? Non per ragioni etiche e sociali (che allora riguarderebbero tutti i profughi ambientali), ma perché loro, i rifugiati climatici, li abbiamo fatti fuggire noi! A causa di comportamenti umani nei paesi industrializzati da almeno quattro generazioni, stiamo obbligando persone, perlopiù sparse in specifiche aree della Terra, povere, ad abbandonare il territorio della loro vita (quando riuscissero a sopravvivere fino al momento di fuggire).

Con scelte e comportamenti clima alteranti, con nostre scelte e nostri comportamenti, con scelte e comportamenti dei nostri stati (i 39 paesi dell’Annesso I del protocollo di Kyoto) abbiamo violato, violiamo e violeremo il loro diritto di restare e la loro libertà di migrare, abbiamo creato, creiamo e creeremo “climate refugees”; i climate refugees ci sono nella concreta realtà, esistono, sono profughi, sfollati, delocalizzati a causa di cambiamenti climatici, ancor più ci saranno in futuro e legittimamente impongono attenzione e assistenza, semplicemente cercando di salvarsi la vita. Si sa quali sono le aree e rischio e gli eventi inevitabili che li stanno facendo e li faranno fuggire (innalzamento del mare, aumento di frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi, scarsità di acqua e inaridimento del suolo); si sarebbe potuto e si potrebbe intervenire molto per favorire resilienza, informare, prevenire, cooperare, assistere, prima e dopo. Non è stato fatto e non lo si sta facendo.

Qualche mese fa è stato reso noto l’annuale rapporto dell’Unhcr, che riporta la forte crescita del numero di persone costrette a fuggire dalle loro case, con 59,5 milioni di migranti forzati alla fine del 2014 rispetto ai 51,2 milioni di un anno prima e ai 37,5 milioni di dieci anni fa. L’incremento rispetto al 2013 è stato il più alto mai registrato in un solo anno. L’accelerazione principale è iniziata nei primi mesi del 2011, quando è scoppiata la guerra in Siria, diventata la principale causa di migrazione forzata a livello mondiale. Nel 2014, ogni giorno 42.500 persone in media sono diventate rifugiate, richiedenti asilo o sfollati interni, cifra che corrisponde a un aumento di quattro volte in soli quattro anni. (attenzione ai termini: fra i rifugiati Unhcr non sono compresi gli oltre 4 milioni di rifugiati palestinesi assistiti da un’altra struttura dell’Onu anch’essi formalmente “refugees”!, fra gli sfollati interni, IDP, vi sono alcuni (piccola parte) dei rifugiati climatici globali!). Segnalo qui, inoltre, che molte guerre degli ultimi decenni sono connesse ai cambiamenti climatici antropici globali, sono guerre per l’energia e per l’acqua, sono conseguenza anche di siccità e desertificazione di territori (che, a esempio, hanno colpito la Siria tra il 2006 e il 2010) e che, a loro volta, le guerre distruggono ambiente e convivenza civile, desertificano il territorio con le armi chimiche e l’uranio impoverito, scacciano o uccidono generazioni di individui lavoratori manuali e intellettuali, sconvolgono il clima locale (come mostra anche la tempesta di sabbia di un paio di mesi fa ancora in Siria).

Restiamo ai dati Unhcr. In tutto il mondo, una persona ogni 122 è attualmente un refugee, uno sfollato interno o un richiedente asilo. Se i 59,5 migranti forzati nel mondo componessero una nazione, sarebbe la  ventiquattresima al mondo per numero di abitanti. Il Rapporto mostra che in tutte le regioni il numero di rifugiati e sfollati interni è in aumento. Negli ultimi cinque anni, sono scoppiati o si sono riattivati almeno 15 conflitti: otto in Africa (Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, nord-est della Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e quest’anno Burundi); tre in Medio Oriente (Siria, Iraq e Yemen); uno in Europa (Ucraina) e tre in Asia (Kirghizistan, e diverse aree del Myanmar e del Pakistan). Solo poche di queste crisi possono dirsi risolte e la maggior parte di esse continuano a generare nuovi esodi forzati. Nel 2014 solamente 126.800 rifugiati hanno potuto fare ritorno nei loro paesi d’origine, il numero più basso in 31 anni. Nel frattempo, durano da decenni le condizioni di instabilità e conflitto in Afghanistan, Somalia e in altri paesi, e ciò implica che milioni di persone provenienti da questi luoghi continuano a spostarsi o – come si verifica sempre più spesso – rimangono confinate per anni nelle periferie della società, nella paralizzante incertezza di essere degli sfollati interni o dei rifugiati a lungo termine. Tra le conseguenze più recenti e ben visibili dei conflitti in corso nel mondo e delle terribili sofferenze che provocano può essere indicata la drammatica crescita del numero di rifugiati che per cercare sicurezza intraprendono pericolosi viaggi in mare, nel Mediterraneo, nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso, oltre che nel sud est asiatico. Il rapporto mostra che nel solo 2014 ci sono stati 13.900.000 nuovi migranti forzati – quattro volte il numero del 2010. A livello mondiale si sono contati 19,5 milioni di rifugiati (rispetto ai 16,7 milioni del 2013), 38,2 milioni di sfollati all’interno del proprio paese (rispetto ai 33,3 milioni del 2013) e 1,8 milioni di persone in attesa dell’esito delle domande di asilo (contro i 1,2 milioni del 2013). Il dato più allarmante è che più della metà dei rifugiati a livello mondiale sono bambini. A livello globale la Siria è il paese da cui ha origine il maggior numero sia di sfollati interni (7,6 milioni) che di rifugiati (3.880.000 alla fine del 2014). L’Afghanistan (2.590.000) e la Somalia (1,1 milioni) si classificano al secondo e al terzo posto. Anche nel contesto di una forte crescita nel numero di migranti forzati, la distribuzione globale dei rifugiati resta fortemente sbilanciata verso le nazioni meno ricche, mentre le più ricche risultano interessate in misura inferiore. Quasi 9 rifugiati su 10 (86 per cento) si trovavano in regioni e paesi considerati economicamente meno sviluppati.

L’Unhcr non si occupa dei rifugiati climatici, non se ne può occupare perché la Convenzione parla di guerre e persecuzioni e, dunque, non ne ha il mandato. Intelligentemente ha messo nelle proprie linee guida di assistenza che, se non si supera il confine del proprio paese, i campi profughi possono accogliere anche profughi di disastri naturali e il loro (vasto) numero è ricompreso fra gli Internally Displaced People, costituisce una parte (minore) degli effettivi rifugiati climatici già esistenti. Tuttavia una persona in fuga può a un certo punto, se riuscito a sopravvivere, continuare a fuggire, sconfinare e arrivare nei paesi limitrofi, attraversarli, migrare. Che fare?

Molti di coloro che cercano di attraversare il Mediterraneo non sono “refugees” e richiedenti asilo, ovvero in fuga da guerre o persecuzioni politiche sul confine limitrofo al loro paese d’origine. Sono donne e uomini in fuga da conflitti civili e soprattutto disastri (circa 450.000 nei primi 9 mesi del 2015, quasi 3000 morti in mare), che fuggono, poi forse sopravvivono (per migliaia di chilometri, attraverso il Sahara-cimitero, sfruttati), poi forse si imbarcano e, se non naufragano (Mediterraneo-cimitero), arrivano in un punto di partenza per una nuova vita, chissà dove. Fra di loro moltissimi hanno cominciato a fuggire dai cambiamenti climatici antropici globali per come si sono manifestati nel loro originario luogo di residenza (siccità, desertificazione, eventi meteorologici estremi, ecc.). Da almeno un decennio in Europa coalizione politiche e istituzioni statali hanno affermato che chi arriva senza permesso va considerato comunque un clandestino e addirittura normato il paradosso per cui occorrerebbe rimpatriare a forza chi … abbiamo costretto noi a fuggire. Anche il recente piano europeo per gestire l’emergenza immigrazione prevede il rimpatrio forzato (quasi sempre in Africa) dei 400 mila migranti che non avrebbero diritto all’asilo politico (anche con premi e multe verso i loro paesi). Non ci siamo.

Credo sia utile distinguere i rifugiati con status riconosciuto (o riconoscibile quando chiedono asilo) dagli altri migranti forzati; e distinguere urgentemente (avrebbe dovuto essere nell’agenda di Parigi, la prossima 21° Conferenza delle Parti sul clima) i tanti generici profughi ambientali dai rifugiati climatici. Il rifugiato si vede assegnato uno status giuridico del diritto internazionale che deriva da comportamenti criminali, violenti o discriminatori di gruppi umani, pure di Stati nazionali, su di lui, su individui umani. Manca una protezione internazionale per i migranti forzati da comportamenti non violenti verso di loro. Gli attuali refugees attuali sono piccola parte della modesta cifra globale dei migranti forzati. I previsti rifugiati (solo) climatici dovrebbero in breve tempo quasi raddoppiare la cifra globale dei migranti forzati, un aumento ancora maggiore se rapportato alla percentuale di popolazione mondiale. Da decenni il calcolo dei migranti forzati “non” politici (diciamo ambientali per limitare la vaghezza) sconvolgerebbe ogni statistica interna e internazionale delle migrazioni, più dei migranti irregolari (stimati fra trenta e cinquanta milioni oggi nel mondo); forse non la geografia internazionale, certo la sociologia e la politica. È del tutto evidente che anche dai disastri bisogna avere i mezzi per fuggire, che si muore per disastri molto più nei paesi poveri che nei paesi ricchi, che anche nei paesi ricchi muoiono più i poveri (per ragioni sociali, non d’intensità del disastro). Ovvio e deprecabile. Comunque, dal disastro si fugge, si cerca di emigrare, se si fa in tempo, per poco o tanto tempo. E si è costretti a fuggire da disastri di varia origine e natura. Quelli connessi ai cambiamenti climatici antropici globali hanno una “certificazione” scientifica e apposite regole nel diritto internazionale, per questo prevenire e riconoscere (anche con accordi bilaterali, anche con corridoi umanitari) i climate refugees è prioritario, pur se un dovere di assistenza riguarda tutti i profughi.

Il 27 settembre scorso è stata adottata dall’Onu l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, 17 obiettivi (broad goals, il 13° riguarda il clima) e 169 precisi indirizzi (specific targets), uno riguarda le migrazioni, per la prima volta. Come sempre, il tutto un po’ generico, ridondante su qualcosa e reticente su altro, macchinoso per certi versi e impotente per altri; orienterà comunque l’unica entità pubblica globale, milioni di pubblici dipendenti e molti denari pubblici e privati nei prossimi anni. Tanto più in Europa dove è enorme e crescente nel prossimo quindicennio l’esigenza di occupare i cittadini che sono nati qui (ecco l’urgenza della legge sulla cittadinanza speriamo in dirittura d’arrivo) e lavoratori che attualmente non sono in Europa e non sono nati in Europa, individui che dovranno immigrare in Europa per lavorare qui, tutte le indagini svolte dalla UE lo confermano.

All’interno dei 17 SDG, all’interno del decimo Goal (“Reduce inequality within and among countries”), il settimo punto riguarda migrazioni tendenzialmente sostenibili. Facilitate orderly, safe, regular and responsible migration and mobility of people. “Facilitare ordinate, sicure, regolari e responsabili migrazione e mobilità delle persone, anche attraverso l’implementazione di politiche migratorie pianificate e ben gestite”. Bisognerà ovviamente ragionare sull’intero obiettivo di “ridurre l’ineguaglianza fra e all’interno dei paesi” e andava meglio esplicitata la lotta dell’Onu, della comunità internazionale e delle singole nazioni, contro le migrazioni forzate. Nei prossimi 15 anni molto si elucubrerà su ognuno dei 4 aggettivi (ordinata, sicura, regolare, responsabile), anche per verificare se si riferiscono a entrambe (migrazione e mobilità), in che modo va diversificata la mobilità emigratoria dalla mobilità immigratoria, in che misura possono essere riassunti dall’aggettivo “sostenibile” (bene o male siamo all’interno di obiettivi di “sviluppo sostenibile”). Suggerisco l’introduzione della nozione di “migrazioni sostenibili”. Non si parla di “libere migrazioni” ed è un bene. L’utilizzo istituzionale dell’aggettivo “libere” per le migrazioni è sempre molto delicato e articolato: libere perché non forzate, oppure libere e perciò non limitabili da chi le riceve?, oppure libere e quindi condizionate solo dal mercato (come nell’Ottocento delle “free migrations”)?. Tutti i 4 aggettivi sono riferiti alla “migrazione” e alla “mobilità”, quindi alle condizioni di chi emigra; tuttavia nella percezione diffusa l’ordine, la sicurezza, la regolarità, la responsabilità vengono associati alla comunità in cui si immigra (ci sono probabilmente una “doppiezza” oggettiva e un opportunismo politico, rischi di cui ridurre gli effetti negativi). Anche qui siamo di fronte a grandi numeri.

Un raffinato documentato rapporto dell’United Nations Development Programme (Undp) ha fatto il punto sei anni fa sulle migrazioni mondiali, purtroppo senza tematizzare criticamente la specificità delle migrazioni forzate. Nel titolo e nel box di definizioni, “human mobility” diventa il cambio di residenza, cioè la migrazione, le migrazioni interne o internazionali. All’interno di complesse dinamiche sociali e demografiche di proporzione fra le prime e le seconde in ogni stato (per esempio si migra di più in percentuale dagli stati meno popolosi e migrano di più i più benestanti e alfabetizzati), c’è una netta predominanza delle prime (ancora più marcata se si distingue una terza categoria di migrazioni regionali, quelle interasiatiche ad esempio). Le migrazioni internazionali riguarderebbero 214 milioni di persone migranti, quindi il 3,1% della popolazione globale, solo per il 34% dai paesi in via di sviluppo verso quelli sviluppati. Il cuore del rapporto è corretto e centrato: anche le migrazioni libere hanno molte barriere, costrizioni; eppure la mobilità migratoria è spesso stata, talora è e potrebbe essere un decisivo fattore di sviluppo umano. Per la prima volta si mettono in rete statistiche istituzionali, sociali, migratorie nazione per nazione, indice per indice, decennio per decennio e si enfatizza il grande peso delle migrazioni interne ai confini amministrativi dello stato, fra aree diverse dello stesso paese, senza cedere alla tentazione di contabilizzare e ideologizzare il semplice cambio di casa. Negli ultimi anni nel mondo il totale di liberi (più o meno) emigranti internazionali sarebbe di circa duecento milioni di donne e uomini (solo un terzo da paesi in via di sviluppo a paesi sviluppati); i forzati emigranti politici sarebbero quindici milioni (quasi tutti nei paesi in via di sviluppo). Ogni paese ha forti libere (più o meno) migrazioni interne, il rapporto UNDP del 2009 parla di circa 740 milioni in 192 paesi; i forzati migranti politici interni sono almeno 27 milioni in 54 paesi.

Inoltre, anche se non ne tratta il Rapporto Undp, migliaia di studi lo spiegano e ripetono da anni: dal punto economico le migrazioni sono in genere molto positive, creative di redditi monetari privati e di benefici finanziari pubblici. Comunque abbiamo origine (anche da conflitti, povertà, fame, disastri) non producono quasi mai conflitti altrettanto forti, miseria, inquinamento; anzi fanno crescere l’icona del Pil, non sottraggono lavoro ai locali, addirittura garantiscono occupazione utile laddove non si trova disponibilità nei paesi ricchi e, attraverso le rimesse, aiutano a sopravvivere nei paesi poveri.

Migranti da sempre, migranti sempre più, migranti per sempre. Nuovi studi ci lasciano ancora circa 5 miliardi di anni prima che l’agonia del Sole lo farà espandere fino a collassare. A quel momento o ci saremo agganciati ad altre forze di gravità o saremo emersi su sistemi più ospitali o saremo estinti. E lo scopriremo solo superando la vita media delle specie sulla Terra (una specie di mammiferi ha vita media fra uno e tre milioni di anni, minuto più, minuto meno). E forse bisognerà fare ancor più in fretta. Un mese fa il grande fisico 73enne Stephen William Hawking ha detto in un’intervista: “Credo che la sopravvivenza della specie umana dipenderà dalla sua capacità di vivere in altri luoghi dell’universo”. Nei prossimi cento anni vede il rischio che ci sia un disastro distruttivo e che l’intelligenza artificiale superi la sapienza umana. Bene a sapersi, tutti questi muri e fili spinati, mari e respingimenti armati, reati di clandestinità e repulsioni emotive, beh non saranno serviti a molto. Molti cambiamenti renderanno ancor più artificiali la nostra evoluzione e le singole vite lungo le frontiere della riproduzione/alterazione/manipolazione delle cellule viventi, delle nanotecnologie, degli innesti bionici, delle ricerche neurologiche, dell’informatica applicata. Per ora l’astronomia e la fisica ci fanno intuire che migrare farà comunque parte del nostro futuro collettivo.

Filosofia della scienza. Migrare non è peccato. Migrare ha fatto del bene alle specie umana sapiente, è stata un’essenziale strategia evolutiva. Non c’è mai stata piena libertà di migrare, non è ancora garantito il diritto di restare dove si nasce e cresce. Nel libro cercheremo con Telmo Pievani di riflettere su questa “libertà di migrare”. La libertà è questione delicata in tutte le discipline sociali e scientifiche, in particolar modo se si ragiona in termini di evoluzionismo e di evoluzione. Vi sono condizionamenti ancestrali, genetici, culturali, contestuali; va sempre distinta la “libertà di” dalla “libertà da”; capacità e opportunità, diversità e disuguaglianze, modi e tempi impongono di evitare enfasi ideologiche. Nel sommario della conferenza odierna erano scritte le due questioni cruciali su cui cercheremo di lavorare nei prossimi mesi:  a) il fatto che le popolazioni umane migrino, per necessità o per scelta, da milioni di anni mette insieme ogni modalità del fenomeno migratorio, inevitabilmente coinvolge anche schiavitù e colonizzazioni, vuol dire che scientificamente dare giudizi morali non è la prima cosa ed è opportuno fare i conti con la realtà dell’evoluzione; b) il fatto che Homo sapiens abbia conquistato una libertà di migrare che riguarda potenzialmente ogni individuo della specie è l’affermazione di un valore sociale e culturale delle migrazioni quanto più libere possibile, quanto meno forzate possibile, come strategia contemporanea di convivenza su un pianeta che sta andando oltre alcuni “confini” sostenibili per l’esistenza di tutti i fattori biotici, dei fattori umani e non umani, dell’ecosistema globale e dei singoli ecosistemi (ormai tutti umani).

Negli ultimi decenni stanno aumentando proprio i tipi e le quantità delle migrazioni forzate. Una persona costretta a migrare è spesso facilmente vittima di sfruttamento e ingiustizia, di ulteriori violenze. Donne e uomini che ne obbligano altri a migrare non va bene, sia quando avviene come conseguenza voluta di un conflitto oppressivo (guerra, schiavitù, persecuzione), sia quando avviene come conseguenza involontaria di comportamenti sociali (i cambiamenti climatici antropici). Abitiamo questo pianeta senza una ragione specifica né uno scopo stabilito dalla natura. Leopardi viene prima dell’evoluzionismo e della termodinamica, ancora oggi per farle scientificamente comprendere spesso ci aiuta più lui che un saggio di biologia o fisica: poetica, empatia fra pensiero e azione, emotiva relazione fra cervelli e corpi umani, sentimento. Il poeta allude a siepi dove solo il pensiero scientifico poi ci conduce. Il mondo e la vita non esistono per causa “umana”, può andar bene a credenti e non credenti, aldilà dell’uso del verbo “creare” l’antropocentrismo è inevitabile ma fallace. Noi restiamo umani e consentiamo a ogni vita di restare vitale. Aiutiamoci con il pensiero scientifico e ironico. E prepariamoci a migrare!