Nello stesso piatto

Il cibo è cultura. Conoscere il cibo di un Paese vuol dire conoscere anche la sua cultura. Condividere il cibo con l’altro vuol dire imparare a conoscerlo e imparare, quindi, a condividere con lui anche tutto il resto. Città della scienza con il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (WFP) ha deciso di scegliere il cibo e le ricette del mondo per raccontare il nostro pianeta e l’alimentazione. Il progetto “Nello stesso piatto“, pensato per i ragazzi ma anche per i loro genitori, vuole  creare l’occasione per conoscere le tradizioni alimentari del nostro Paese e dei diversi Paesi dai quali provengono tanti ragazzi che studiano e vivono in Italia. E così conoscere l’altro attraverso il cibo.

Il 30 maggio la prima giornata del progetto sarà incentrata sulla preparazione di un menu semplice tratto dalla tradizione culinaria  di due Paesi da cui provengono molti ragazzi che vivono e studiano in Italia: Ucraina e Nigeria. I piatti verranno cucinati da due genitori che conoscono la ricetta e aiuteranno a presentarla. Sarà l’occasione per avvicinarsi alle tradizioni e alla cultura di questi Paesi. Inoltre, un gioco permetterà ai ragazzi di scoprire cosa significa abbondanza e scarsità di cibo e come  avviene la distribuzione degli alimenti tra continenti diversi. Mentre un’attività didattica sulla Dieta Mediterranea farà loro scoprire i vantaggi di questa alimentazione per l’organismo.

Perché scegliere un percorso sul cibo e l’alimentazione?
Perché possiamo, innanzitutto, raccontare la particolare geografia di un mondo diviso tra chi ha troppo e troppo spesso si ammala di sovralimentazione (i due miliardi di supernutriti e obesi) e chi ha troppo poco e soffre la fame e la  malnutrizione (i 795 milioni di affamati).
Molti si chiedono come possa esistere il moderno paradosso di un mondo con cosi tanti affamati anche se esiste abbastanza cibo per tutti.
Questa questione è stata messa anche al centro dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile che tra i sui 17 obiettivi pone, al numero 2, quello sulla “fame Zero” e sottolinea come  i conflitti, i disastri naturali, gli spostamenti forzati di popolazione, le pandemie e il degrado ambientale possono invertire i progressi, che pure ci sono stati negli ultimi decenni, sul fronte della lotta alla fame.

Guerre e conflitti sono, infatti, tra i fattori  che aggravano enormemente questo quadro. Essi sono la causa dell’80 per cento di tutti i bisogni umanitari. Nel 2014, ogni giorno conflitti e violenza hanno costretto 42.500 persone a lasciare le proprie case e a cercare sicurezza sia dentro che fuori i confini. Siria, Yemen, Iraq Sud Sudan sono alcuni dei luoghi “caldi” della Terra dove il rischio per la propria vita si associa alla quasi certezza di soffrire la fame.
Ma anche i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia considerevole alla disponibilità globale di cibo, alla sua accessibilità e pongono una seria ipoteca sulla sicurezza alimentare globale. L’80% di quanti soffrono di insicurezza alimentare vive in luoghi esposti ai disastri e al degrado.  Milioni di persone sono sfollate a causa di shock climatici, con un aumento del 60 per cento dal 1970 al 2014. Negli ultimi sette anni si calcola che ci sia stata una media di oltre 26 milioni di persone sfollate per cause ambientali ogni anno. Se la comunità internazionale non riuscirà a fronteggiare le cause del cambiamento climatico, entro il 2050 altri 200 milioni di affamati andranno ad ingrossare le fila dei più poveri. Le previsioni sono allarmanti. Due dati tra i molti disponibili lo conferma: il cambiamento climatico potrebbe ridurre la produzione agricola fino al 30 per cento in Africa e fino al 21 per cento in Asia.

Eppure la lotta alla fame dovrebbe essere una priorità assoluta non solo per la comunità internazionale ma anche per i singoli governi. Esiste, infatti, una correlazione diretta tra redditi individuali,  PIL di una nazione e tassi di mortalità infantile e della malnutrizione/denutrizione. In Africa, ad esempio, il costo della malnutrizione infantile pesa per oltre 16 punti di PIL. In Etiopia si stima che 16,5 per cento del PIL sia perso a causa della malnutrizione e che la mortalità infantile associata alla malnutrizione abbia ridotto dell’8 per cento la mano d’opera disponibile.
A livello globale moltissime istituzioni e centri di ricerca concordano sul fatto che cinque delle prime dieci soluzioni per lo sviluppo economicamente vantaggiose si concentrano sulla nutrizione. In media, per ogni dollaro investito nella nutrizione per ridurre il deficit di sviluppo, l’indice di redditività del capitale investito (ROI) è 16 volte tanto. Per alcuni paesi il ritorno è ancora più alto: Sri Lanka, 56 volte; Sudafrica, 53 volte.

Ma le cifre raccontano solo una parte della realtà dell’alimentazione.  Ci raccontano la sua “geografia”, non i mille significati che esso assume nelle diverse culture e organizzazioni sociali.
Il cibo è vita. Non solo per chi vive nel mezzo di una guerra o di un disastro naturale e vede distruggersi il tessuto familiare, della propria comunità e  nazione, e viene privato  della capacità di procurarsi il cibo. Lo è anche per la maggioranza degli affamati cronici, per chi vive con meno di 1,25 dollari al giorno in una condizione di povertà estrema.  Per l’esercito dei “super poveri” basta poco per scivolare nel baratro della fame. Sono sufficienti un raccolto andato a male, la morte del bestiame, la malattia del capofamiglia. Al contrario, la disponibilità del cibo è il primo blocco su cui costruire un’idea di futuro e sperare di avere un futuro.

Il cibo è l’essenza del pianeta e ci rimanda anche al concetto di sostenibilità. Perché sappiamo che non esiste sviluppo sostenibile se non si riesce a sradicare la fame. Sfamare il pianeta significa affrontare, in termini di sostenibilità, i nessi tra produzione, consumo, difesa dell’ambiente, nutrizione, disponibilità del cibo nel tempo e nello spazio. Abitiamo la Terra in 7 miliardi. Nel 2050 saremo 9 miliardi. C’è chi mangia troppo e male e chi troppo poco e male. In questo caos alimentare, pieno di contraddizioni, eccessi e povertà sprechiamo/perdiamo 1,3 miliardi di tonnellate di cibo. Di questi, circa 640 milioni di tonnellate vengono sprecate  (soprattutto alla fine della catena alimentare) nei  paesi ricchi. Finiscono nelle nostre pattumiere o vengono scartati dalla grande  distribuzione mentre 630 milioni di tonnellate sono perse nei paesi poveri (soprattutto all’inizio della catena alimentare), perché mancano le infrastrutture, i luoghi di stoccaggio e i mercati. E’ uno spreco di risorse non più sostenibile dal nostro pianeta. Per produrre 100 chilogrammi di cibo per il consumo umano, ne dobbiamo produrre 150. Un’impresa fallimentare!

Ma il cibo è anche e soprattutto condivisione, espressione di identità, della  propria cultura, segno di appartenenza a una comunità di cui spesso le donne si fanno veicolo. E’ il filo fortissimo che resiste anche nella famiglie di immigrati che popolano le nostre città. Possiamo immaginare che esso sia l’elemento identitario forte dei 60 milioni di sfollati e rifugiati registrati in questi ultimi mesi, un numero record mai raggiunto da dopo la seconda guerra mondiale.
Il cibo, la sua preparazione ci tramandano culture altre, modi di produzioni, legami affettivi e molto altro. Il progetto di Città della scienza assieme al WFP dunque vuole essere il racconto del nostro pianeta attraverso il cibo. Rendendo protagoniste le donne che spesso sono custodi dei riti familiari legati al cibo. Ma anche i bambini e le bambine che di queste culture possono essere portatori in  un modo globale, connesso e ci piace immaginare più pacificato. Perché sedersi insieme e consumare lo stesso cibo è, a ogni latitudine, segno di pace e di condivisione.