La Politica nell’età post-Ideologica. Dalla capacità progettuale alla gestione del privilegio*

Siamo – è ormai una consolidata e indiscutibile convinzione – nell’età della “fine delle ideologie” e dei partiti che le incarnavano, o meglio, della fine delle ideologie alternative all’unica sopravvissuta, quella neo-liberale del mercato universale, della riduzione a merce di ogni aspetto della vita umana e della crescita infinita.

Questa si è impossessata delle menti, della società e della politica contemporanea e ormai si diffonde in ogni contesto; come l’etere, è invisibile, inodore e inudibile se non al prezzo di un esercizio della riflessione critica di solito precluso agli abitatori di una società plasmata da docili e servizievoli mass media, in mano a poche agenzie della “educazione di massa”. Le ideologie – come anche le “grandi narrazioni” di Lyotard – sono state dichiarate morte per celebrare l’unica che ad esse succede, occupandone lo spazio e colonizzando l’immaginario. Ne viene fuori una nuova configurazione complessiva della politica, con la quale dobbiamo ancora fare i conti fino in fondo: è l’eclisse dei partiti e delle ideologie delle quali erano portatori. Ma spesso continuiamo a ragionare come se nulla fosse avvenuto: il nostro lessico non si è ancora adattato alla nuova realtà e continua ad attribuire a partiti e ceto politico caratteristiche, comportamenti normativi ed etici di un’età ormai tramontata, idonei a descrivere passate configurazioni istituzionali, non più attuali se non per una mera, formale sopravvivenza, svuotata dei contenuti che prima le avevano alimentate.

Ma prima di affrontare in modo diretto questo tema, è necessario fare un piccolo passo indietro, in modo da capire il contesto all’interno del quale è avvenuta la transizione che vogliamo discutere.

 

“Non ci sono alternative”: l’onda lunga del  Thatcherismo e il nuovo patto sociale

Nella liberal-democrazia del primo ’900 le istanze liberiste care al ceto industriale e quelle democratiche di cui erano portatrici le masse lavoratrici avevano trovato una fragile composizione, in certi casi scompigliata dalla lotta di classe, con vere e proprie fratture rivoluzionarie e reazioni autoritarie. Con la fine della seconda guerra mondiale, nei paesi dell’Europa più avanzata le due esigenze contrapposte – quella liberista centrata sull’iniziativa individuale e sull’economia di mercato, e quella democratica, maggiormente sensibile ai valori dell’eguaglianza e della partecipazione solidale – trovano un nuovo equilibrio nella “economia sociale di mercato”. Il welfare, permesso dall’imposta progressiva sul reddito, rappresenta la risposta adeguata a salvaguardare il modello di produzione capitalistico dal pericoloso mito concorrente proveniente dai paesi del socialismo reale.

È l’avvento di un nuovo patto sociale, che sembrava aver assicurato la pace sociale ed insieme il progressivo espandersi di una classe media che costituiva il principale bacino di alimentazione del ceto politico e burocratico, chiamato a gestire il difficile equilibrio. Alla borghesia industriale si affiancava così una borghesia delle professioni, delle competenze, della intermediazione sociale che si assumeva di fatto il compito di gestire una economia a base capitalistica, cercando comunque di assicurare, attraverso una oculata redistribuzione della ricchezza, la pace sociale e le condizioni affinché il sistema produttivo potesse continuare a produrre in condizioni ottimali. Questa nuova classe media proprietaria trova la sua principale vocazione nella rappresentanza politica, costituendo un nuovo fattore di mediazione nel conflitto tra capitale e lavoro e ritagliando per sé una fetta di potere e di influenza grazie all’occupazione di gran parte della pubblica amministrazione e dei vari luoghi istituzionali. Viene così inaugurata la stagione politico-economica definita “les trente gloriouses”, cioè i trent’anni che vanno dal dopoguerra alla metà circa degli anni ’70, quando comincia la crisi petrolifera. Sono anni caratterizzati da crescita economica (con la media del 4% annuo, nei paesi dell’OECD e del 5,6% in Italia, nel periodo 1950-1973), aumento dei redditi del ceto medio, redistribuzione della ricchezza mediante la tassazione e creazione del welfare, con conseguente riduzione delle diseguaglianze sociali1.

In Italia, tale nuovo patto sociale trovava il suo alveo istituzionale nella nuova Costituzione del 1948. A leggerla in questa luce si capisce il grande sforzo effettuato, da intellettuali e politici di grande levatura e lungimiranza, per comporre un edificio normativo in grado di tener conto delle diverse esigenze provenienti dalle forze liberiste e da quelle democratiche, le quali ultime nel nostro paese erano incarnate in modo peculiare nelle masse socialcomuniste e nei loro partiti.
La crisi petrolifera della prima metà degli anni ’70 e il richiamo alla impossibilità di una crescita infinita2 inauguravano la stagione dell’austerità. A sinistra – nell’ottica di un grande leader come Enrico Berlinguer – essa viene declinata nel senso di una moderazione dei consumi al fine di garantire le conquiste dei lavoratori e del ceto medio; a destra viene recepita come l’occasione per il riequilibrio dei rapporti di forza a favore del capitale, che nel frattempo aveva visto erodere le proprie quote di profitto. La risposta in quest’ultima direzione prende avvio prima in Inghilterra con l’avvento di Margaret Thatcher (1979), quindi negli Stati uniti con la presidenza di Ronald Reagan (1981).

Le politiche conservatrici sono implementate in nome dei diritti individuali, della necessità di liberare l’iniziativa privata da ogni vincolo statalista e da norme che ne impediscano l’espansione, del libero mercato, della riduzione della presenza dello stato, della riduzione della tassazione ai più abbienti nell’ottica di un suo reinvestimento produttivo (è la “supply-side economy”), della lotta al potere sindacale che minaccia la concorrenzialità delle imprese3. Tutto ciò veniva ricoperto da una coltre di parole d’ordine, slogan e argomenti legati insieme dall’idea che solo così si può fronteggiare la crisi e assicurare a tutti, anche ai lavoratori, un maggior benessere. Un insieme di idee così radicato e capillarmente diffuso da essere ancora nel 1997, in piena era clintoniana, ribadito da Lawrence Kudlow, un economista dell’amministrazione Reagan, che non si peritava di annunciare: «un’era di rinnovati valori spirituali e morali, un’era di pace globale e di prosperità è davanti a noi. Penso che siamo a circa un terzo della strada di questo lungo ciclo e credo che è stato Reagan ad averle dato inizio»4. Contrariamente a questi trionfali annunci la società divenne in effetti sempre più segnata dalla ineguaglianza, così come è chiaro in Gran Bretagna alla fine degli anni del thatcherismo5 e negli Stati Uniti come effetto della lunga stagione neoconservatrice6.

Figure retoriche – come quella dell’alzarsi della marea (quando la marea si alza, porta su tutte le barche, le piccole e le grandi) o dell’effetto “trickle-down” (per cui l’arricchimento dei ricchi fa sgocciolare anche verso il basso parte della ricchezza) – si sposano con la martellante idea thatcheriana per la quale “There is not alternative”7 (spesso abbreviato in TINA), recentemente riportata in auge dal suo emulo e successore David Cameron8. Passa l’idea, insomma, che la politica neoconservatrice avesse solo il compito, dopo anni di follia dirigistica e di interventismo statale, di restaurare l’ordine naturale delle cose: esso è quello regolato dal mercato, dall’iniziativa privata, dalla espansione del profitto, dall’individualismo, dalla liberalizzazione finanziaria. La passata stagione di redistribuzione e welfare ha infatti costituito solo una perversione di quest’ordine, una sua artificiale perturbazione, una indebita interferenza fatta di “lacci e lacciuoli” (altra figura retorica di largo corso in questi anni di ritorno neo-conservatore) che non poteva portare se non alla crisi dell’economia, al rallentamento della crescita, alla burocratizzazione e all’espansione del potere statalista. È quanto viene teorizzato, programmato e messo in atto dal cosiddetto “partito di Davos”, cioè i principali esponenti di quella “classe globale”, che si riuniscono informalmente sin dagli inizi degli anni ’80 nella omonima cittadina svizzera e che ha deciso il cammino della globalizzazione dei mercati, della finanza e la distruzione del welfare9.

Insomma, è la reazione a ciò che viene definito una sorta di “sovietismo” mascherato; e l’Italia – a detta di molti intellettuali che in seguito sposeranno la politica di Berlusconi ritenendolo una reincarnazione del thatcherismo e del reaganismo – rappresentava l’ultimo “paese sovietico” esistente al mondo dopo la fine dell’URSS e la reintroduzione dell’economia di mercato in Cina.
Ulteriori eventi macrosistemici – il crollo dell’Unione Sovietica e la fine del socialismo reale nei paesi dell’Est, la globalizzazione economica e finanziaria, la transizione alla cosiddetta “economia (e società) della conoscenza”10 con la parallela rivoluzione tecnologica – fanno saltare completamente il residuo equilibrio tra le forze sociali che stava alla base del vecchio patto sociale.
I vincoli che ancora si frapponevano al trionfo generalizzato e universale delle politiche neo-onservatrici vengono travolti dal nuovo complesso di forze che ormai si muove a livello mondiale.

In Italia tale equilibrio ha retto di più grazie alla forza di un Partito comunista con una notevole capacità di attrazione verso i ceti medi, che in passato aveva persino sfiorato il sorpasso della Dc, candidandosi alla guida del paese. La stagione degli attentati – fossero essi il frutto di settori impazziti del radicalismo comunista oppure sapientemente organizzati o favoriti dagli stessi apparati statali più retrivi – giunse “provvida” in tempo per fermare questa ascesa. La successiva caduta del muro di Berlino finì per innescare un movimento di revisione del PCI che pian piano lo portò sempre più lontano dalle sue radici storiche nell’ottica di un adeguamento alla modernità, di un suo “rinnovamento”, sino a giungere a pensare – come poi scriveranno due interessati e benevoli consiglieri – che il “liberalismo è di sinistra”11. Nondimeno il compromesso tra le forze in campo è durato in Italia più a lungo di quanto avvenuto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, agevolato anche da una Costituzione che per certi aspetti dava una sponda istituzionale atta a resistere all’assalto dei neoconservatori (e appunto per questo essa è divenuta da un certo momento in poi oggetto di attenzione da parte di questi ultimi).

Tuttavia tale resistenza non è stata possibile su tutti i fronti. Se essa è riuscita a tenere il campo sul fronte interno – anche grazie a un sindacato ancora vigoroso e a un PD non del tutto allineato sulle posizioni “riformiste” – sul piano esterno i governi italiani non potevano fare a meno di essere compartecipi di quel processo di mondializzazione e di consolidamento del capitale finanziario internazionale che aveva nelle banche e nelle multinazionali i loro principali protagonisti. Sotto la spinta di questo processo sono state approvate tutte quelle norme e pattuizioni che hanno favorito sempre più l’autonomia operativa delle multinazionali. Ciò avviene innanzi tutto attraverso la  germinazione dalla holding centrale di nuove società formalmente autonome che operano sui mercati nazionali avendo la natura di meri contenitori giuridici.

Pur restando economicamente e giuridicamente dipendenti dalla casa madre, queste possono operare in modo spregiudicato nello sfruttamento del lavoro e nella ricontrattazione di salari e tempi di lavorazione, salvo chiudere bottega quando le condizioni favorevoli di sfruttamento vengano a cessare o quando se ne trovano di più vantaggiose altrove; e c’è sempre un “altrove” dove la gente è disposta a lavorare anche in condizioni disumane pur di portare a casa un tozzo di pane. L’extraterritorialità della casa madre impedisce di fatto sia ai governi nazionali, sia ai lavoratori interessati qualsiasi capacità reale di contrattazione. Come scrive Lidia Undiemi, «la forza del mercato dell’outsourcing e della proliferazione dei gruppi di società risiede nella possibilità di governare attività senza assumersi necessariamente le relative responsabilità. […] L’architettura giuridica che permette di suddividere legalmente un’unica impresa in più società – ciascuna delle quali è apparentemente titolare dei requisiti di imprenditorialità sulla porzione di attività che le è stata affidata – favorisce da un lato la deresponsabilizzazione dell’impresa unitaria di gruppo, generalmente riconducibile alla holding, e dall’altro il trasferimento del rischio agli investitori e alla collettività»12.

Il senso profondo di questa deresponsabilizzazione risiede nel fatto che ormai le aziende, più che essere interessate al consolidamento e allo sviluppo delle proprie capacità produttive in un’ottica di “economia reale”, sono sempre più incentivate a sviluppare l’aspetto finanziario della propria attività, dal quale ricavano un profitto assai più elevato e a breve termine, e apparentemente meno rischioso, di quello derivante dalla conduzione di un’impresa reale. Si sviluppa sempre più la subordinazione dell’economia reale alla finanza e si pongono le premesse per la creazione di quella “economia del debito” in cui il denaro creato dal nulla serve a finanziare e drogare i consumi e le spese individuali e degli Stati, salvo poi a chiedere il rientro del debito e a salvare dal collasso il sistema bancario scaricandone il costo sulla fiscalità generale e sulla popolazione. I meccanismi creati per favorire la libertà dei mercati e la finanziarizzazione dell’economia, nonché i trattati internazionali (come quelli che legano i paesi dell’UE) e gli organismi sovranazionali che li governano (FMI,World Bank, BCE e così via) han fatto sì che, quando il meccanismo del debito perpetuo si inceppa e la crisi scoppia col fallimento della Lehman Brothers nel 2008, si venne a innescare una crisi mondiale che si è abbattuta in modo devastante sull’Europa.

Così, «in una catena causale dominata dai rapporti di forza, il capitalismo finanziario delle grandi banche di affari statunitensi ha scaricato i costi dei suoi fallimenti programmati sulle banche europee. Queste, a loro volta, hanno scaricato le loro perdite sui popoli degli stati deboli della UE»13.
Lo spostamento sul piano internazionale delle decisioni vitali concernenti l’economia, la creazione di un mercato del lavoro transnazionale e l’immissione in esso di forza lavoro proveniente dai paesi dell’Est fuoriusciti dal comunismo (e più recentemente, dalle zone di guerra generate dall’improvvida politica occidentale in Medio Oriente) permette la caratteristica e sempre efficace strategia di spostare su un piano più generale le contraddizioni difficili da risolvere a un livello meno elevato, se non al prezzo di un aspro conflitto.

All’economia mondializzata e interconnessa non corrisponde ovviamente una coordinazione politica altrettanto efficace e tanto meno una politica sindacale e di difesa dei lavoratori che abbia la benché minima possibilità di concertazione: ne consegue che la forza dei sindacati sul piano nazionale viene spezzata col riportare le decisioni assunte all’operare di meccanismi economici al di fuori di ogni loro possibile azione di contrasto, sapientemente orchestrati dalla politica al servizio del capitale finanziario internazionale. E quando i sindacati cercano di reagire sul piano nazionale (ammesso che tale contrasto si esprima in modo unitario), la loro azione viene immediatamente ed efficacemente delegittimata e neutralizzata col riportare ogni decisione ed intervento sul piano internazionale, appellandosi alle “leggi del mercato”, richiamandosi agli accordi internazionali, oppure semplicemente minacciando e facendo ricorso alla delocalizzazione e all’outsourcing, come anche all’assunzione di lavoratori disposti a qualsiasi salario e orario di lavoro purché possano beneficiare delle briciole del progresso occidentale, che sono sempre qualcosa di più della miseria dei loro paesi di origine.

I sindacati non possono che dimostrare la loro “ragionevolezza” accettando le misure proposte in nome di una “superiore” necessità e razionalità economica, in attesa che “in the long run” (come diceva Keynes, aggiungendo però che alla fine potremmo essere tutti morti) il benessere finalmente sopraggiunga.
Nella dinamica qui sommariamente descritta, la politica ha avuto un ruolo tutt’altro che secondario. È stata infatti essa ad approntare – sia a livello nazionale che internazionale – tutte le tecnicalità giuridiche e le misure legislative ed economiche ha hanno favorito il processo descritto. Come ha scritto Luciano Gallino, «In Europa come negli Usa, tutte queste azioni sono state scandite da leggi, decreti, norme, direttive emanati da governi, Parlamenti e organizzazioni intergovernative: è la politica che, impegnando tutte le sue forze, ha consegnato il potere alla finanza, non questa che ha prevaricato sulla prima grazie alla sua debolezza»14.

Dunque, un ruolo centrale, addirittura decisivo, quello della politica; un ruolo che, lungi dal far deperire l’influenza del ceto politico, ne ha permesso la sopravvivenza a condizione di farsi portatore di un nuovo patto sociale, di essere interprete di un nuovo ordine economico e di mettersi docilmente al servizio degli interessi del capitale finanziario internazionale, mascherati da obblighi e vincoli di carattere internazionale assunti con le più “nobili intenzioni” e sotto la spinta di quello che è stato definito il “pensiero unico”; anche in questo caso, “There is not alternative”.

In una nazione come l’Italia, dove il ceto politico e la classe media che ne è stata il nerbo hanno avuto sempre un ruolo centrale nell’assicurare la mediazione tra opposti e conflittuali interessi, al punto da far teorizzare il cosiddetto “primato della politica”, questo nuovo ruolo della politica ha assunto caratteristiche peculiari che in un certo qual modo ne hanno differenziato il percorso rispetto agli altri paesi, contribuendo a spiegarne le dinamiche negli ultimi vent’anni. Tuttavia, affinché ciò fosse possibile era prima necessario liquidare la vecchia classe dirigente, che ancora pensava di poter “governare” l’economia in nome di interessi generali e di una visione distributiva della ricchezza, esercitando così il suo “primato”. A ciò ha provveduto la stagione di “mani pulite”, che ha rappresentato – nel generale consenso dell’opinione pubblica e dell’imprenditoria italiana – un vero e proprio “omicidio perfetto”. Esso ha portato all’inabissamento di un intero ceto politico, a cui sopravvisse solo il PCI, ma solo per breve tempo; presto anch’esso avrebbe conosciuto profonde trasformazioni che lo avrebbero liberato da ogni residua visione complessiva della società, da ogni bandiera ideale sotto la quale raggruppare i propri militanti. Questa liquidazione del vecchio ceto di governo ha favorito l’avvento della politica post-ideologica e al tempo stesso ha cambiato sia il carattere della corruzione politica sia il modo in cui la politica ha concepito i suoi rapporti con la società.

Erano ormai poste le condizioni per un nuovo patto sociale con i ceti produttivi: l’arretramento della politica nella gestione dell’economia – della quale se ne accettano come indiscusse le regole, con tutte le loro conseguenze, anche le più disastrose, per la società (come delocalizzazione e trasferimento all’estero dei centri produttivi e direzionali di industrie sinora operanti in Italia, spesso largamente supportate col denaro pubblico) – non ha significato per nulla un suo “dimagrimento”, una sua minore pervasività sociale. Pur rinunciando al governo dell’allocazione delle risorse del sistema produttivo – ritagliandone per sé e per il proprio mantenimento una buona fetta – il ceto politico ha trovato nuovi modi di appropriarsi di quote della ricchezza sociale attraverso la gestione di una molteplicità di enti, partecipate, municipalizzate e istituzioni esistenti sul territorio (il federalismo, da questo punto di vista, è stato una vera e propria manna), che sono state sempre più sottoposti al suo controllo e infiltrazione e pertanto sottratti alla gestione tecnica assicurata da funzionari e “grand commis”, selezionati in base a forme pubbliche di accertamento delle loro capacità.

In questo caso non ci sono vincoli europei o di mercato che possano costituire un ostacolo: la politica ha potuto trasformare il proprio “modo di ri-produzione” non più mediante il saccheggio delle risorse direttamente generate dal sistema industriale (attraverso il controllo di imprese ed aziende o con tangenti imposte per finanziare i partiti politici, tutto spazzato via da tangentopoli), bensì grazie al diretto approprio della ricchezza sociale prodotta dal sistema economico e drenata attraverso la fiscalità generale, regionale e locale. Grazie alla capillare penetrazione in enti territoriali, comuni, province, partecipate, municipalizzate e via via inventando, la politica ha potuto sempre più ritagliare a proprio vantaggio gran parte della ricchezza nazionale. Si capisce dunque la continua necessità di estendere sempre più il proprio potere, anche laddove prima esso non arrivava: unità sanitarie locali, ospedali, università, sistema dell’istruzione, beni archeologici e ambientali, grandi opere (Expo, Mose) e persino l’assistenza agli immigrati. Il tutto in nome – anche le peggiori nefandezze hanno bisogno sempre di una copertura ideologica – di una maggiore “vicinanza” tra gli amministratori e gli amministrati.

Ecco dunque la vera differenza tra prima e seconda (o terza) repubblica: la fine del “primato della politica” – decretata sulla base di nobili e a prima vista condivisibili obiettivi – non solo non ha portato alla riduzione del potere dei partiti e alla diminuzione della corruzione, ma ha comportato il tacito rinegoziamento di un nuovo “patto sociale” grazie al quale il ceto industriale lascia libero campo al ceto politico di gestire la ricchezza sociale di cui lo Stato e le amministrazioni regionali si appropriano tramite la fiscalità generale; e il ceto politico predispone a vantaggio di quello economico-industriale tutte le riforme e le misure economiche di suo interesse, in termini di legislazione sociale e del lavoro, di concrete misure di sostegno o non interferenza economica, o di ridimensionamento del potere sindacale. Si viene a riproporre una sorta di alleanza simile a quella da Salvemini diagnosticata a fine Ottocento; solo che questa volta gli attori non sono i latifondisti e la piccola borghesia professionale – i primi che si prendono il parlamento, i secondi liberi di fare i loro interessi a livello locale15 – bensì il capitale finanziario che si impossessa del parlamento attraverso partiti politici svuotati di rappresentanza popolare e postisi a suo servizio e una classe politica, fatta sempre in gran parte dalla borghesia professionale, ma con ampie forme di democratizzazione verso altri ceti sociali, che è libera di saccheggiare e gestire a proprio vantaggio la ricchezza sociale della quale si appropria attraverso il drenaggio fiscale.

In tale quadro la corruzione che vediamo testimoniata dalle cronache quotidiane è solo un effetto di questa nuova distribuzione del potere. Essa però cambia aspetto, passando da appropriazione da parte dei partiti ad appropriazione da parte dei singoli, per i quali i partiti diventano solo lo strumento di facili carriere ed arricchimenti. Sprovvisti ormai di radicamento territoriale e di punti di riferimento ideali – se non in funzione opportunistica e di consenso elettorale – i partiti sono facile preda per potentati locali e per scalatori in grado di portare pacchetti di voti utili alla mera competizione interna del ceto politico nel suo complesso. Ad un ceto industriale ed economico-finanziario lasciato libero di fare tutto ciò che vuole in base al “mercato”, col volenteroso e complice aiuto della politica che approva le leggi ad esso gradite, fa da contraltare una politica lasciata libera di saccheggiare la ricchezza nazionale grazie alla propria capillare e crescente presenza in tutti i gangli della vita civile, incontrastata nella sua escogitazione di leggi elettorali e costituzionali che rendano più agevole questo obiettivo.

 

La fine delle ideologie e l’anomia delle masse

La conseguenza più evidente e decisiva di quanto prima descritto è stata una profonda trasformazione dei partiti politici. In genere la teoria politica vede nel partito l’espressione organizzata di certe tipologie di interessi, siano essi rappresentativi dei valori e delle aspirazioni di grandi masse oppure di gruppi più ristretti esprimenti comuni obiettivi sociali. In particolare, i cosiddetti “partiti di massa”, nati con l’ingresso di queste ultime nella competizione politica dopo l’età d’oro dei sistemi liberali censitari, erano portatori di visioni del mondo diverse e concorrenziali, nelle quali si condensavano radicate aspirazioni, che a loro volta si esprimevano in quelle che sono state chiamate, il più delle volte con disprezzo e svalutazione, “ideologie”.

Queste si possono caratterizzare in effetti come delle visioni generali della società, del suo ordinamento, del modo di regolare i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, di come intendere l’etica privata e pubblica, la famiglia, la società, l’educazione, l’assistenza, la solidarietà, la natura del legame sociale e così via. Tutto ciò può essere ispirato a una generale concezione del mondo millenarista (come ad es. avveniva col comunismo), religiosa (con il cattolicesimo o altre forme di religiosità), o anche laico-razionalista (come pretendeva fare il liberalismo). Le ideologie forniscono sia un quadro complessivo della società e del suo ordinamento politico, sia una significativa cornice d’insieme nella quale si delinea un ordinamento sociale ispirato a ideali e fini di carattere assai generale, come il senso del posto dell’uomo nel mondo e del suo peregrinare su questa terra, con una implicita o esplicita teleologia16.

In questa duplice veste – descrittiva e normativa – l’ideologia ha una funzione fondante rispetto alle forme di aggregazione partitica nelle quali vengono convogliate le aspirazioni e gli interessi di ampi strati della popolazione di un paese; essa adempie lo scopo di tenere insieme la società umana, che in essa si riconosce e trova il suo luogo naturale, costituendone – come ha sostenuto Althusser – il “cemento” che la connette, una sua parte organica, che la costituisce in un tutto organizzato e senza la quale essa non potrebbe nemmeno esistere come tali17. Sicché si potrebbe ben sostenere che «produciamo, disseminiamo e consumiamo ideologie per tutta la nostra vita, ne siamo consapevoli o meno. […] Le ideologie […] ci forniscono una mappa del mondo politico e sociale. Semplicemente non possiamo farne a meno perché non possiamo agire senza dare un senso al mondo in cui abitiamo»18.

Caratteristica tipica delle ideologie era la loro capacità di porsi come interesse generale. I partiti e le organizzazioni sociali che se ne facevano portatori nutrivano il fermo convincimento che, nel realizzare i fini specifici delle masse popolari di riferimento e i loro valori, al tempo stesso si adempiva una missione generale, perché il loro successo avrebbe portato al miglioramento complessivo della società e quindi ad un generale progresso. Persino il comunismo, che si proponeva la vittoria del proletariato (cioè di una parte della società), sosteneva che ciò avrebbe portato al benessere complessivo di tutta la società, liberando persino i capitalisti dalla schiavitù che si erano autoimposta. Nello spezzare le proprie catene, il proletariato spezzava anche quelle che impedivano lo sviluppo dell’intera umanità.

Altra peculiarità della visione “ideologica” della politica era – piaccia o meno – il suo carattere di irreversibilità. Così come la transizione dal modo di produzione antico a quello medievale e dal feudalesimo al capitalismo non poteva conoscere e non ha conosciuto la possibilità di un ritorno indietro, se non nelle fantasie di nostalgici e “passatisti”, così si pensava il comunismo come il passaggio a un tipo di società dalla quale non ci sarebbe stata la possibilità di tornare indietro, perché avrebbe costituito un nuovo “tipo” di assetto sociale, superiore al precedente e quindi avente un carattere strutturale, epocale. Anche a non volere pensare tale transizione in termini olistici, ovvero come una complessiva e radicale metamorfosi dell’assetto sociale e del modo di pensare nel suo complesso, si riteneva comunque che certe acquisizioni – verso una maggiore solidarietà, eguaglianza, parità di diritti e un tipo di civiltà che si riteneva fosse comunque portatrice di valori superiori alla precedente – non potessero e non dovessero più esser messe in discussione. Ma anche al di fuori della prospettiva comunista, la realizzazione della popperiana “società aperta” veniva pensata come l’accesso a un modello di società che, per la sua manifesta superiorità rispetto alla precedente, rappresentava una acquisizione definitiva nella lunga via che porta l’umanità sulla strada del progresso e dell’incivilimento.

Del resto, la stessa idea di “blocco della storia”, cioè di una condizione che segna uno stadio di civiltà da cui non si può recedere in quanto rappresenta l’assetto “normale” dell’umanità associata, è anche tipica delle concezioni liberali e neo-liberali,così com’è stato esplicitamente teorizzato nel ben noto saggio di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”19. E quando si ipotizza la possibilità di regresso, esso viene visto come un ricadere nella barbarie, come un ritorno indietro, un irrompere di forze irrazionali nella storia, così com’era accaduto col nazismo e – in un’altra ottica – persino col comunismo. È questa una concezione che risentiva di un’idea sostanzialmente evolutiva e progressista della storia e che poteva essere praticata solo all’interno di un quadro complessivo della realtà dell’uomo e del suo posto nella storia, che abbiamo per convenzione definito come “ideologico”.

Così intese, le ideologie svolgevano un’importante funzione per la tenuta della società. Non solo costituivano il quadro di riferimento che legittimava un ordine sociale, ma permettevano anche di canalizzare e regolamentare all’interno delle formazioni che se ne facevano interpreti (partiti, sindacati, organizzazioni sociali, movimenti) anche il dissenso, l’ira e la protesta sociale, l’insoddisfazione per la propria condizione e la speranza di un cambiamento. Esse prendevano, in questo caso, la forma di un’istanza collettiva, di una forza trasformatrice che investiva l’intero assetto sociale e che vedeva nel concorrere delle energie individuali e delle “menti associate” (per usare l’espressione di Carlo Cattaneo) il modo più efficace per portare ad un cambiamento che non interessasse solo il destino del singolo. Era questo in fondo il progetto che aveva sotteso la politica del XX secolo, che aveva visto nella forza collettiva e organizzata delle grandi masse, che si orientano in base ad obiettivi e progetti comuni, l’energia in grado di trasformare la società e con ciò di migliorare la condizione dei singoli; e i partiti costituivano l’istanza organizzata di questa forza, altrimenti portata e disperdersi in jacquerie e sterili forme di guerriglia sociale.

La dichiarata fine delle ideologie e della loro speranza palingenetica, come anche la crisi delle forze organizzate che le incarnavano, non sono state sostituite da altre forme di espressione del malessere sociale o di organizzazione del consenso. Si è andata invece via via consolidando, saggiamente alimentata da nuove mitologie di massa e luccicanti specchietti per le allodole (come l’esaltazione dello yuppismo, la celebrazione dello “edonismo reaganiano”, l’insistere sull’individualismo postmoderno…), la ricerca della soluzione individuale all’interno di un presente che viene assunto come intrascendibile. A poter cambiare – si è soavemente insinuato e fatto credere – è solo il destino del singolo che deve recidere ogni legame: con i colleghi sul posto di lavoro, con la classe, con la comunità, con la società; ormai monade isolata, il singolo persegue una solitaria lotta per accaparrarsi una fetta quanto più possibile ampia dei beni di consumo che il mercato gli promette come ultima sua felicità e realizzazione. È il trionfo della “ragione cinica”, di un individualismo ottuso e privo di prospettive che si commiata dall’idea di una possibile salvezza attraverso la partecipazione collettiva a un destino comune20; al suo posto v’è lo sgravio da ogni responsabilità verso il resto dell’umanità, il ripiegare sul “particulare” e l’interesse esclusivo per la micro-prassi del contesto immediatamente vitale. È la concreta realizzazione della concezione thatcheriana, per la quale «There is no such thing as society. There is living tapestry of men and women […]»; uomini e donne tutti in lotta e in reciproca concorrenza, senza nessun legame che li istituisca come un corpo comunitario, unito da conoscenze, saperi, speranze, sentimenti e tradizioni.

Ma la frustrazione finisce inevitabilmente per colpire quei ceti e quegli strati della popolazione che, in questa corsa al soddisfacimento consumistico e alla realizzazione personale, restano indietro e così scoprono l’illusorietà delle mitologie che li avevano ammaliati. In assenza di una narrazione d’insieme che dia un senso alla propria marginalità, scontano sulla propria pelle la vacuità di un benessere generalizzato e sono sempre più portati a sfogare il proprio avvilimento prendendo di mira i marginali, i più deboli, gli stranieri. L’assenza di una prospettiva complessiva che canalizzi la rabbia sociale finisce per dare corpo a una guerriglia limitata, particolaristica, frazionata, in cui i grumi d’insoddisfazione possono sciogliersi solo colpendo obiettivi concreti, ben individuabili per il fatto di avere una carnalità diversa, evidente, inequivocabile, per essere portatori di una dissomiglianza che investe pelle, lingua, religione. Le opposte e potenzialmente solidali oppressioni si scagliano le une contro le altre, sviando la propria rabbia dal potere che le tiene tutte sotto il proprio tallone.

Dopo il crollo del comunismo e la fine di ogni residuale utopia egualitaria, il potenziale di sofferenza e miseria liberatosi dalle due parti del muro non ha trovato più un luogo in cui trovare rifugio, sia pur consolatorio – in un lontano “sole dell’avvenire” e nelle nebbie dell’illusione mitica – ed è finito per ammutolire.
Oggi, nel nostro tempo, assistiamo alla «compresenza tragica di disgregazione sociale e di immobilismo politico, di ingiustizie sempre più insopportabili e di atrofia della risposta pratica da parte degli offesi del pianeta»21.

 

Metamorfosi del partito politico e funzione stabilizzante della democrazia

Con l’avvento della borghesia il potere, prima trasmesso in modo ereditario o con procedure formali oppure in modo informale, viene a riprodursi mediante il condizionamento della ricchezza o in virtù di una migliore e più efficiente cultura. Ma tali fattori possono progressivamente perdere la loro efficacia nella misura in cui la società tende sempre più alla popperiana “società aperta”. Questa si fonda, nella sua versione ideale, sull’idea che sia possibile selezionare i migliori cui conferire i posti di responsabilità e potere; e la “apertura” consiste nell’ampliare al massimo (al limite a tutta la popolazione) la platea di selezione, in modo da ottimizzare la scelta degli “eccellenti”.

Ovviamente non scompare la differenziazione tra governanti e governati, tra il ceto politico che detiene formalmente il potere e il resto della società che non ne dispone, e quindi non gode dei relativi privilegi. Solo si rende scorrevole e veloce, oltre che efficiente, la mobilità sia all’interno del ceto politico che cura gli interessi della classe sociale dominante sia nei ranghi di quest’ultima, grazie a un “ascensore sociale” avente il compito di permettere il suo continuo rinnovamento e un suo più elevato tasso qualitativo. Affinché ciò sia possibile è necessario che il meccanismo di selezione e promozione possa avvenire nel modo migliore. Di solito ciò è assicurato dal sistema di istruzione e formazione; ad esso il compito di effettuare uno screening sull’intera società selezionando e convogliando le diverse capacità umane verso la loro più idonea collocazione, assicurando ai migliori l’accesso ai ruoli dirigenziali, che possono coincidere – e che in genere per lo più coincidono, almeno in una ideale società aperta – con il centro detentore del potere.

Ma tale meccanismo funziona in modo ottimale solo se esso è universale, gratuito e gestito in modo unitario sull’intero territorio nazionale da un organismo che possa assicurare tali requisiti.

E difatti è stata tradizionalmente la scuola pubblica, gestita e governata dallo Stato, ad adempiere tale funzione. Per cui a contrario è stato sempre obiettivo delle classi dominanti – del ceto che detiene il potere e che vuole assicurarlo in maniera discrezionale ai propri figli, parenti e clienti – quello di creare percorsi educativi e di professionalizzazione differenziati, in cui possa valere ancora il privilegio del denaro, della classe sociale di partenza e delle conoscenze; onde le scuole private esclusive, le università di eccellenza con alte rette, a cui solo pochi possono accedere, col parallelo e progressivo definanziamento e impoverimento delle università statali, destinate ai cittadini di serie B con basso reddito o culturalmente svantaggiati. La lotta contro la scuola pubblica e statale è al solito giustificata dicendo che essa vuole imporre una cultura di Stato, invocando la necessità di preservare le identità diverse (religiose, culturali, etniche), appellandosi al diritto delle famiglie all’educazione dei propri figli e così via.

Tuttavia, anche ipotizzando un funzionamento dei meccanismi di mobilità sociale quanto più simile a quello proprio della “società aperta”, non verrà comunque meno la distinzione tra governanti e governati. Lo aveva diagnosticato Gaetano Mosca: «[…] in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla vitalità dell’organismo politico sono necessari»22. In effetti, come ha sostenuto più recentemente Leszek Nowak, la contraddizione che esiste nell’ambito della sfera politica tra governanti e governati costituisce un fattore fondamentale della dinamica sociale, che non può essere ridotta solo alla contraddizione tra detentori dei mezzi di produzione e forza lavoro. Tale contrapposizione nella dimensione del politico non deve essere sottovalutata quando si voglia spiegare in modo più adeguato e completo l’intreccio tra politica ed economia e la dinamica sociale, che non può essere ridotta – conformemente alla classica impostazione marxiana – alla sola dimensione economica23.

La descritta fine delle ideologie porta anche ad un indebolimento del legame tra ceto politico e classe sociale da esso rappresentata; inoltre, il radicamento dell’idea che non siano più possibili cambiamenti globali nel modo di produzione e quindi nella complessiva formazione economico-sociale che definisce una civiltà, porta con sé la conseguenza di concepire i cambiamenti solo all’interno dell’esistente, nelle sue morfologie strutturali tipiche del modo di produzione economico-sociale capitalistico nell’era della sua finanziarizzazione globalizzata. E la critica degli intellettuali – garantita all’interno degli spazi della democrazia liberale da un potere in apparenza permissivo – parte sempre dal presupposto che il quadro complessivo sia immodificabile: se ne stigmatizzano solo le imperfezioni, se ne denunciano solo le distorsioni, se ne propongono solo osmotiche rettifiche. È la concreta celebrazione di ciò che Gramsci ha indicato come uno degli idoli più comuni della politica, cioè «credere che tutto ciò che esiste è “naturale” esista, non può [fare] a meno di esistere e che i propri tentativi di riforma, per male che vadano, non interromperanno la vita, perché le forze tradizionali continueranno ad operare e appunto continueranno la vita»24.

In questa luce i partiti si riducono, nella logica dell’alternanza senza vera alternativa, a funzioni intercambiabili del “governo”, che ha in sé stesso una sua autocefalia, insensibile e indifferente rispetto alle forze politiche che ne occupano di volta in volta i ruoli chiave e che ne sono nominalmente titolari. Non solo deperisce nei partiti la funzione di dare espressione ai molteplici interessi organizzati nell’ottica di un progetto complessivo di valenza generale, ma viene anche ad attenuarsi la differenza tra le politiche concrete che vengono di volta in volta messe in atto. Queste sono sempre più dettate da organismi sovranazionali che ai poteri nazionali lasciano solo la possibilità di decorazioni estetiche e propagandistiche alternative rispetto a misure assunte in nome di esigenze spacciate per necessità imprescindibili del mercato finanziario globalizzato, che è retto da leggi che non possono essere infrante dalle singole volontà nazionali o dalla autodeterminazione democratica dei popoli. L’esempio più chiaro è dato dal recente caso della Grecia, con l’accettazione del suo premier Alexis Tsipras del memorandum imposto dalla Troika e della conseguente inutilità del referendum che invece lo aveva bocciato. A dimostrare che il “governo” ha ormai dimensioni inaccessibili alle singole istanze democratiche, ha natura sovranazionale e ha sue regole, sue leggi e sue bronzee esigenze 25.

I grandi partiti, ormai incapaci né del resto più concepiti per coagulare le masse e per suscitare un vasto consenso intorno a una prospettiva collettivamente definita e condivisa, vengono a rattrappirsi sempre più in una gestione leaderistica del potere. Il confronto politico si estenua in una guerriglia personalistica in cui da abbattere risulta l’avversario, mentre scompare sullo sfondo l’analisi strutturale, il ruolo che ciascuno occupa all’interno del sistema complessivo, le contraddizioni che lo reggono e di cui i singoli sono solo epifenomeni, mere mosche nocchiere di un carro che cammina per suo conto e che impone andamento e direzione.

I partiti, non più ampi collettori di idee e modi di vedere la realtà, si trasformano in composite aggregazioni di interessi aventi al loro centro, come un cuore che pulsa, un ceto politico autoreferenziale la cui unica ragion d’essere e stella polare si condensa nel mantenimento e nell’ampliamento del proprio potere, a cui è subordinato l’ottenimento del consenso, da realizzare in qualunque modo. Dal potere perseguito per realizzare un progetto ideale si passa all’artificiale e opportunistico approntamento di un insieme o accozzaglia di idee pensate al solo scopo di permettere di raccattare il massimo consenso, pervenire al potere, mantenerlo e possibilmente estenderlo. Il potere da mezzo strumentale diventa causa finale della lotta politica; da veicolo finalizzato alla realizzazione di un programma, diventa unico fine appiattito nella gestione di sé stesso. Importante è vincere, non realizzare un programma; e per vincere qualunque programma o slogan è buono, purché sia efficace.

Il potere in quanto tale è così eternato, allo stesso modo di come lo sono la struttura di classe o le divisioni sociali: si tratta di cambiare – quanto più possibile lentamente e parzialmente – solo il personale che lo interpreta; anche le politiche concrete – purché rispettino l’immutabilità del quadro generale disegnato dai poteri finanziari transnazionali – sono del tutto reversibili e intercambiabili. Carattere tipico di questo modo di dispiegarsi del potere è la sua capacità – che è una vera e propria necessità per garantirsi la sopravvivenza – a diffondersi metastaticamente in tutti i gangli della società, in tutti i luoghi istituzionali, reduplicando con andamento frattale la composizione del gruppo dirigente dei singoli partiti politici.

Esso in sostanza si auto-replica all’interno di ciascun centro di potere, con la regola per cui la conflittualità mai deve superare quella soglia di guardia che possa portare a metterlo in discussione in quanto tale, di modo che ne sia preservata la compattezza e ne sia assicurata la massima efficienza nei confronti della concorrenzialità esterna. I privilegi che scaturiscono da tale occupazione della società civile verranno di solito spartiti solo all’interno della coalizione che detiene il potere esecutivo, escludendo tutti coloro che sono all’esterno: è la celebrata fine del “consociativismo” e l’avvento dello “spoil system”. E nei rapporti tra i partiti della maggioranza, la distribuzione di questa fetta di privilegi avvantaggerà, quando esso sia determinante per la tenuta della maggioranza, il partito minore, che così ne godrà di una parte proporzionalmente più ampia rispetto a quello maggiore. La stessa struttura si replica all’interno del partito con le fazioni che lo compongono, che ricalcano la stessa dinamica.

In una società post-ideologica, nella quale i partiti non si confrontano più su modelli alternativi di società, l’avvicendamento interno alla classe politica, che si organizza mediante la concorrenzialità interpartitica, non ha più il compito di trasformare la società in modo radicale, ma di gestirla nell’interesse del ceto politico che conquista il potere e delle persone da esso rappresentate, che di solito partecipano a cascata alla condivisione dei privilegi. La concorrenzialità tra i partiti – nei quali sono confluiti i “migliori” selezionati dal sistema educativo (stiamo ragionando nell’ipotesi della società aperta ideale) – non comporta mai un così radicale sovvertimento sociale da mettere in questione il ceto politico in quanto tale, portando al potere classi prima da esso escluse o cambiando l’assetto socio-economico della società – come si ipotizzava nelle ipotesi millenaristiche e socialcomuniste –, bensì equivale sempre a una sostituzione interna al ceto dirigente, nella continuità dell’assetto economico e sociale della società.

E in questo caso la possibilità democratica del voto significa solo la possibilità di scegliere chi si vuole governi, rimanendo programmi, obiettivi e fini dei vari partiti solo strumenti propagandistici che una volta al potere verranno dimenticati o messi in sordina. In queste condizioni la forma democratica è quella che assicura la maggiore stabilità politica e la maggiore continuità del ceto politico e degli interessi da esso residualmente interpretati. Un esempio tipico di tale gestione democratica del potere sono gli USA, dove persino una presidenza quale quella di Barack Obama ha finito per incidere assai poco – se non a livello meramente verbale e di stile – sui reali assetti di potere e sulle tradizionali divisioni di classe della società americana. E il susseguente successo repubblicano non è nella sostanza altro che un avvicendamento al potere, restando immutato l’assetto di classe ed economico-sociale della società, semmai aggravandolo ulteriormente a vantaggio dei ceti privilegiati.

Sono invece assai più fragili e meno stabili i sistemi autocratici e dittatoriali; in questo caso l’esclusione di larga parte della popolazione dalla gestione del potere – assicurato a una ristretta cerchia gravitante intorno ad un dittatore o a poche famiglie politicamente ed economicamente dominanti – e quindi l’impossibilità di un avvicendamento e di una circolazione all’interno della classe dominante che permetta a chiunque di accedervi se in possesso della dovute capacità, crea un serbatoio di ostilità e una radicalizzazione della contrapposizione che in momenti di crisi può portare ad un più o meno violento sovvertimento del sistema politico. Allora l’élite al potere può essere completamente spazzata via e sostituita da chi a quel potere non aveva partecipato o vi aveva preso parte solo in modo marginale e subordinato.

In questo caso si hanno le “rivoluzioni” classiche che si studiano in storia. Ne segue che il modo migliore per una classe dominante di mantenere il potere è quello di allargarlo quanto più possibile e quindi di transitare ad una società democratica, al tempo stesso assicurandosi i mezzi per poter esser vincente nella corsa alla selezione del ceto politico, ma rinunciando tuttavia alla pretesa dell’esclusività del dominio e quindi accettando che anche altri vi possano prender parte. Se la classe dominante è sufficientemente abile e intelligente, questa transizione è possibile col minimo danno.

 

Finzione e realtà della lotta politica

È allora tutta una messinscena la concorrenzialità, talvolta l’aspra contesa, tra partiti, il loro competere per pervenire al governo del paese (o degli enti locali), così come Robert Michels pensa che in sostanza accada in ossequio alla “ferrea legge dell’oligarchia”, che porterebbe alla omologazione tra i partiti?26

Certo, non v’è dubbio che tra i “politici” si venga col tempo a stabilire una solidarietà di fondo che assume a proprio cardine la salvaguardia del potere di ceto contro ogni minaccia che può provenire dall’esterno (dalla magistratura, dai movimenti sociali non irreggimentati, da altri partiti che ancora non hanno accettato il “galateo” del dibattito democratico ecc.). Ciò spiega l’impossibilità di una autentica riforma della politica operata dai politici, che tagli privilegi e prebende: essa finirebbe per segare il ramo dell’albero sul quale essi stanno comodamente appollaiati, con il loro seguito di amministratori, presidenti di consigli di amministrazione, alti burocrati; insomma, tutti coloro la cui posizione socialmente di vantaggio dipende in qualche modo dalla discrezionalità politica. Si è mai visto un ceto privilegiato, una classe sociale, un gruppo comunque detentore di potere, decidere – consapevolmente e senza esservi costretto con la forza (comunque intesa) – di sopprimere i propri privilegi in nome di più alti ideali?

Numerosi sono gli esempi di autodifesa del ceto politico. Basti pensare al grande problema del rapporto tra politica e giustizia, dove assistiamo all’interscambio delle parti tra giustizialisti e garantisti, a seconda di chi è momentaneamente sotto il mirino della magistratura. E quando la minaccia pare coinvolgere pariteticamente tutte le formazioni politiche, si alza una generale e condivisa richiesta di legislazione che surrettiziamente tende a “disarmare” la giustizia e ad assicurare l’intoccabilità del privilegio; ma ciò viene fatto, ovviamente, esibendo la bandiera di norme che “combattono la corruzione” o garantiscono i cittadini dall’abuso del potere giudiziario o in salvaguardia della loro “privacy”.

O anche si rifletta sulla sostanziale irresponsabilità della politica di fronte a malversazioni, a comportamenti politicamente equivoci, a cattive amministrazioni della cosa pubblica: chi pagherà politicamente per quanto denunziato dalla Corte dei Conti in merito alle falsificazioni e irregolarità nei bilanci delle Regioni?27 Eppure questi bilanci portano in calce una firma precisa, sono approvati da una certa maggioranza, sono redatti da un responsabile amministrativo.

E tuttavia ciò non vuol dire che non esista una lotta non simulata, sia all’interno dei singoli partiti, sia a maggior ragione tra partiti diversi. Nel primo caso, venuto meno il conflitto per declinare diversamente un progetto di fondo avente carattere complessivo, lo scontro per la leadership si configura in base a discrimini che non hanno nulla a che fare con programmi o progetti. Emerge piuttosto in primo piano la generica contrapposizione tra vecchi e giovani o una semplice invocazione del cambiamento, della velocità: per realizzare cosa non si sa, per andare verso un dove che non viene indicato; l’importante è cambiare, eliminare il “vecchio” e immettere il nuovo. Non a caso tempo fa un ministro dell’attuale governo ha così risposto alla domanda sul significato di essere di “sinistra”: «I valori della sinistra di oggi sono quelli del cambiamento, a mio avviso. Essere di sinistra significa non essere tanto custodi del passato, della memoria, ma in qualche modo anticipare il futuro, costruire il futuro, quindi essere riformisti, per l’appunto». Il cambiamento comunque e in ogni caso: non importano i suoi contenuti, né viene espresso in modo implicito o esplicito un giudizio di valore o una linea di tendenza verso qualcosa (“cambiamento verso una maggiore eguaglianza, una maggior efficienza, una maggiore competitività, una più accentuata legge della giungla…”, e così via).

A ciò si accoppia da parte di molti entusiasti sostenitori dell’attuale premier la considerazione dirimente per la quale oggi, finalmente “la sinistra vince”, che essa è uscita dalla minorità, che non è più la piagnucolosa versione dei soliti estremisti mai contenti o la devitalizzata rappresentazione di un ceto politico da rottamare: essa è uscita dalla sua condizione di eterna minoranza, di permanente opposizione per diventare protagonista. Un chiaro esempio di capovolgimento dei termini della questione rispetto all’età ideologica: dal conquistare il governo per realizzare un programma (un progetto, degli ideali, chiamateli come volete) all’andare al governo perché così si vince e finalmente non si è all’opposizione. Cosa si realizzi grazie a ciò non ha importanza: la sinistra è il cambiamento. Eraclito al posto di Marx, o Turati, o Gramsci, o Berlinguer. In questa smania di protagonismo, di essere al centro, di stare sul palco dei vincitori, di arraffare e comunque mantenere il potere si è consumata la nemesi di un ceto politico che degli ideali della sinistra ormai ha conservato solo l’involucro esteriore, nella sua più perversa incarnazione: lo stalinismo, ovvero la conquista del potere e la sua mera gestione, con la conseguente identificazione con le istituzioni e lo Stato, tali e quali come ereditati dal passato. L’importante è governare e non perdere la maggioranza: ideologie, programmi, alleanze, interlocutori sono funzionali a ciò, componenti intercambiabili e variabili nel tempo purché adempiano al loro ruolo di consolidamento del potere conquistato.

Nel secondo caso, cioè quello della competizione tra partiti diversi, la conquista del consenso nel paese non passa attraverso la gramsciana “egemonia”, ovvero la capacità di far diventare universale e condivisa una ideologia particolare, una visione del mondo che risponda anche all’interesse generale, bensì assume i toni e la strategia di una operazione commerciale, di una scalata borsistica.

Ma il fine di questa operazione di marketing è anch’esso indeterminato e di fatto, i contenuti di questo “nuovo” saranno scoperti via via, nella pratica quotidiana del governare, nei decreti-legge approntati e approvati, col ricorso sempre più massiccio al voto di fiducia: «il movimento è tutto, il fine è niente», sosteneva tempo fa il socialdemocratico Eduard Bernstein, vituperato come traditore dai socialdemocratici “ortodossi” dell’epoca. Eppure costui, nell’affermare ciò, era ben consapevole che il movimento doveva avere un contenuto concreto: «Io attribuisco il massimo valore ai compiti immediati della socialdemocrazia, cioè alla lotta per i diritti politici dei lavoratori, alla agitazione politica dei lavoratori, nella città e nel comune, per gli interessi della loro classe, all’opera di organizzazione economica dei lavoratori. In questo senso a suo tempo io ho scritto la frase: per me il movimento è tutto, e ciò che comunemente è chiamato obiettivo finale del socialismo è nulla, e in questo senso lo sottoscrivo ancora oggi. La conquista del potere politico da parte della classe operaia e l’espropriazione dei capitalisti non sono, in se stesse, obiettivi finali, ma soltanto mezzi per realizzare determinati obiettivi e aspirazioni»28.

Ma termini come classe operaia, diritti politici dei lavoratori, o anche sinistra, eguaglianza, solidarietà, sono lemmi quasi del tutto estinti nel vocabolario e nell’immaginario dell’attuale politica, sia di sinistra, come di centro e di destra. Resta solo il rinnovamento, il nuovo, il futuro, l’iPhone e un insieme di parole prive di contenuti, indeterminate anche se evocative, delle quali ciascuno può immaginare una ricaduta nel proprio quotidiano esistere secondo il suo gradimento e le sue aspettative; salvo a scoprirne le implicazione concrete a cose già fatte, nelle conseguenze nascoste dai codicilli e dai commi, che travalicano le generiche affermazioni e si traducono in effetti concreti sulla vita di ciascuno. Ormai le nuove parole d’ordine sono quelle dettate da finanziari, industriali, tycoon, purché verniciate di nuovismo, riformismo, buonismo, giovanilismo, miti high-tech mal compresi e mal digeriti. Perché la cultura del nuovo ceto politico non è capace di articolare ragionamenti che vadano oltre i 140 caratteri di twitter; chi azzardi un argomentare più complesso, più problematico, meno semplicistico e semplificatore è irriso, denigrato e infine emarginato dal dibattito, ritenuto un esponente di una cultura vecchia, retorica, possibilmente “umanistica”.

Ed è un destino ben comprensibile: al tempo delle ideologie gli intellettuali avevano una funzione importante, direi essenziale, in quanto costituivano il tramite fondamentale con cui la visione del mondo che ispirava il partito veniva articolata, sostenuta, diffusa e ribadita non solo a beneficio delle larghe masse fidelizzate e di quelle da egemonizzare, ma anche all’interno dello stesso partito, in modo da formare i suoi quadri, confermarli nelle loro convinzioni, forgiarli in una visione che temprasse il loro carattere e desse loro la forza di non cedere alle seduzioni del “mondo profano”, in un’ottica di missionarismo laico (era questa la funzione delle “scuole di partito”).

E il partito stesso, inteso come “intellettuale collettivo”, coccolava gli intellettuali, se ne serviva come fiori all’occhiello, li poneva nelle proprie liste elettorali, perché – in sintonia ad un diffuso sentire sociale per il quale la cultura rivestiva ancora un valore e che guardava agli intellettuali con considerazione, ritenendoli una risorsa indispensabile per il progresso economico e sociale del paese – si pensava che essi potessero fornire un contributo di prestigio, di autorevolezza e persino di elaborazione teorica per assicurare le proprie fortune. Ma in un’età di crescente plebeismo cognitivo che vede ormai nella cultura, specie umanistica, una inutile perdita di tempo, uno spreco di risorse funzionale solo ai privilegi di un ceto di intellettuali (e innanzi tutto, dei docenti universitari, ormai unanimemente concepiti come “fancazzisti”, baroni, parassiti e dediti alle più sordide pratiche clientelari), o che nel migliore dei casi la concepisce come componente del processo economico, come spinta all’innovazione e alla crescita produttiva e tecnologica; in un’età in cui la comunicazione si esplica tramite i testi brevi di internet e twitter, che rifugge ogni approfondimento ed è sempre più disabituata alla lettura seriale, organizzata e logicamente strutturata di un testo scritto, rispetto al quale si finisce per essere persino in debito lessicale; in tale temperie di diffusa “ignoranza ipermoderna” e di progressiva lumpenproletarizzazione cognitiva di gran parte della popolazione, che celebra l’ignoranza come forma superiore e concreta di saggezza a fronte del sapere astratto e inutilmente complesso dei “gufi”29, a che si vuole siano utili gli intellettuali, i “professoroni”, i “cacadubbi”, coloro che incitano all’esercizio della ragione critica e non dogmatica, alla prudenza concettuale, alla esatta definizione di nozioni, idee, tesi?

Analogamente a quanto avveniva nell’età del tramonto della cultura classica, oggi v’è bisogno di un leader a cui affidarsi, di una parola in cui confidare, di una prospettiva semplice, immediata, di breve durata, di una salvezza a portata di mano. Oggi non bisogna pensare, ma credere. E coloro che non accettino questo nuovo “credo”, devono essere emarginati, rinserrati in una riserva indiana (come ormai stanno diventando le università e le discipline umanistiche), a cui far pian piano mancare le risorse, ostacolando la riproduzione e la conservazione della cultura di cui sono portatori, soffocandoli lentamente con l’impedire loro di creare scuole, discepoli, allievi che ne possano portare avanti l’impegno, lo studio, gli interessi.

Altra caratteristica di questa nuova fase è che l’esito della lotta all’interno dei partiti e tra i partiti non è la eliminazione dello sconfitto, la sua uscita dalla scena politica e il ritorno alla vita privata, alla professione (che spesso mai è esistita, essendosi trasformata la politica stessa in una “professione”). Chi perde resta comunque all’interno del “gioco” della politica, mantiene almeno parte del proprio status, pur non godendo più del potere precedentemente posseduto: parteciperà alla vita parlamentare del suo partito oppure, peggio che vada, gli sarà affidato un lucroso e ben retribuito incarico in qualche ente statale, parastatale o partecipato, sia pure a livello locale. Ma nel contempo il significato reale della lotta politica e della concorrenza tra i ceti che la incarnano è profondamente cambiato. In una situazione come quella descritta, infatti, i partiti, saldamente nelle mani di coloro che ne detengono la quota di maggioranza, sono ormai diventati solo forme, strumenti, meccanismi per gestire il privilegio, ovvero il vantaggio (comunque esso sia inteso) di una parte sul tutto, che avviene grazie alla esclusione degli “altri” dal suo godimento. E il privilegio di cui si può godere è tanto più alto quanto più è elevata la divaricazione tra la numerosità degli appartenenti e dei rappresentati dal partito vincente e il resto della popolazione rappresentata dagli altri partiti o non rappresentata affatto (perché disinteressata e non votante). Si capisce facilmente che a tale scopo il sistema elettorale e rappresentativo migliore è quello maggioritario con premio di maggioranza: in questo caso, pur con un consenso limitato sul totale della popolazione votante (e ancor più, non votante), un partito può massimizzare il proprio potere e quindi la capacità di spartire e garantire privilegi. Ed è ancor meglio se il partito diventa “leggero”: i pochi iscritti e l’affievolirsi del dibattito democratico interno (negli organismi di base) assicurano un sempre maggior potere alla segreteria e all’apparato dirigente, che poi nomina a cascata tutti coloro che sono collocati nei gradi intermedi e negli organismi istituzionali in qualche modo sottoposti alla discrezionalità politica (direttamente dipendente dal governo nazionale o di disponibilità degli enti locali). Così, infatti, si riduce la coorte di persone a cui devono essere assicurati i privilegi e diventa possibile aumentare proporzionalmente quelli da assegnare a coloro che partecipano alla gestione del potere.

La conseguenza di questo processo si può riassumere nella doppia funzione che i partiti finiscono  per assumere. Da una parte si accresce il personalismo, si moltiplicano gli slogan – tanto più efficaci quanto più elevata è la loro vaghezza e vacuità –, si intensificano le campagne mass-mediali di carattere populistico, in cui si dà l’impressione di operare nell’interesse della maggior parte della popolazione e in cui le visioni complessive si annacquano in parole d’ordine generali senza alcun contenuto specifico (conservatorismo vs innovazione, passato vs futuro, staticità vs movimento, vecchio vs nuovo, anziani vs giovani ecc.).

Dall’altra parte assistiamo alla salvaguardia, al mantenimento e possibilmente all’incremento dei privilegi assicurati alla casta di coloro che appartengono al partito in misura più o meno stretta, ai loro familiari e clientes; infine e in via subordinata, ai loro elettori. Del resto questo processo è ben comprensibile: come ha affermato Marco Tarchi, «da quando si è iniziato a celebrare il funerale delle grandi aspirazioni a cambiare il mondo, delle ideologie, dei progetti – magari ingenui – di rifondare da capo a piedi una società, è apparso chiaro che la politica si sarebbe ridotta, per chi intendeva praticarla a tempo pieno, a carrierismo.»30

La metamorfosi che ha lentamente cambiato la natura dei partiti è pressoché completa: essi non hanno più la funzione di assicurare il benessere collettivo o quello nazionale ecc. (tutti scopi che, ovviamente, vengono mantenuti al livello di slogan e di propaganda; onde l’importanza vitale del controllo dei massmedia), ma quello di sostituire ad un ceto politico e alle sue varie ramificazioni e articolazioni sul piano nazionale e locale un altro ceto politico con sue attinenze; un meccanismo al quale ormai anche i sindacati sembrano tributari, ritagliando sotto forma di pensioni e stipendi maggiorati la loro parte di ricchezza sociale31.

In fondo, il privilegio è autenticamente tale quando non tutti possono goderne; e lo è tanto più quanto meno sono le persone che ne godono. Non esiste un “privilegio democratico” o egualitario: esso è sempre escludente, tendenzialmente oligarchico; ciò significa che il privilegio e i beni che esso permette di assicurare sono tanto più elevati quanto più aumenta lo scarto tra la minoranza che detiene il potere e la maggioranza che ne è esclusa (ovviamente non in senso politico parlamentare, ma come numero di persone appartenenti ad una società). Un caso tipico e specifico si ha quando un partito possiede una esigua e limitata rappresentanza parlamentare, ma tuttavia gode di un potere di ricatto così elevato (per la formazione di un maggioranza governativa) da poter massimizzare il proprio potere reale e quindi il livello di privilegi goduto, come è accaduto ad es. col PSI all’epoca di Craxi, con la Lega durante i governi Berlusconi, con il partitino di Alfano nel corso del governo Renzi. In ciò v’è anche la ratio dei piccoli gruppi, che cercano di massimizzare la loro influenza (associazioni, lobby, gruppi fortemente coesi, ecc.): essi hanno la caratteristica di possedere uno zoccolo di potere consolidato per la qualità delle persone che li compongono, che viene massimizzato grazie al mutuo appoggio e alla influenza che ciascuno può disporre al servizio degli altri.

L’obiettivo che si pone in questo quadro il singolo che voglia “scendere in campo”, cioè fare della politica la propria professione, è molto complicato a realizzarsi, ma assai semplice a dirsi (non prendiamo qui in considerazione chi voglia farlo per perseguire un ideale, fattispecie che ancora si riscontra, anche se sempre più sporadicamente): deve risolvere l’equazione che ha come incognite il partito che garantisca la massimizzazione dei privilegi acquisibili e quello che abbia reale possibilità di pervenire alla gestione del potere. Di solito i partiti “di governo” sono quelli elettivamente scelti (onde la corsa ad “aiutare il vincitore”); e tra questi è migliore quello che abbia a disposizione più potere da spartire pro-capite, o perché gode di una posizione cardine nel governo, o perché il suo personale politico è di scarsa qualità o sottodimensionato rispetto al potere disponibile; o per altre circostanze del genere. In fondo ciascuno fa una “scommessa” su dove investire il proprio capitale umano: a volte essa riesce, altre volte la valutazione è errata e si opta per il “cavallo sbagliato”.

Necessario presupposto di tale tipo di “carriera politica” è l’accettazione delle “regole della politica”, la principale delle quali impone la solidarietà di ceto: mai fare alcunché che possa nuocere al ceto politico in quanto tale, nel suo complesso; ma tutto è permesso quando si voglia eliminare un “player” dal gioco della politica, per sostituirsi ad esso, nel rispetto delle sue regole.
A sua volta il compito principale del partito al governo sarà di risolvere l’equazione che vede come variabili la massimizzazione del proprio potere-privilegio e il consenso da mantenere: bisognerà concedere alla parte della popolazione esclusa dai privilegi quel tanto sufficiente a garantirne se non il consenso, almeno la non aperta ribellione, al contempo occultando i privilegi del ceto politico dominante con la propaganda e il controllo quanto più completo dei mezzi di comunicazione di massa. E quando i privilegi – sotto forma di scandali, corruzione o semplicemente prebende esorbitanti il “comune senso del pudore” – vengono alla luce ad opera di giornalisti e organi di stampa coraggiosi e non ancora omologati, allora la strategia più intelligente da parte del ceto politico dominante sarà quella di mostrarsi pensosamente consapevole dell’indignazione, promuovere e partecipare con aria sofferente ai dibattiti, promettere interventi radicali e definitivi, annunciare uno dopo l’altro provvedimenti, offrire qualche capro espiatorio alla rabbia popolare (ci sono sempre conti da regolare all’interno del ceto dei privilegiati) e nel contempo aspettare (a volte persino favorire) che qualche altro problema più urgente e immaginativamente efficace  un’alluvione, un omicidio clamoroso, una crisi internazionale, una guerra, un’ebola, un attentato: per tutto ciò v’è ampia disponibilità e sufficiente fantasia creativa) faccia dimenticare la questione, fidando sulla memoria corta della popolazione. E così, passata la buriana, dimenticati i problemi grazie a quelli nuovi, stancata l’opinione pubblica con infiniti dibattiti, nel contempo delegittimata la magistratura, che indaga o ha voglia di farlo, con inchieste che ne denunziano privilegi, inefficienze, cantonate e imprecisioni, allora sarà possibile riprendere in silenzio e con maggior lena di prima la vecchia pratica di governo: ci sarà sempre un Expo, un MOSE, o un nuovo mega-progetto che permetterà di riguadagnare, con gli interessi, il potere e le prebende nel frattempo perduti.

 

Per concludere

La condizione post-ideologica sinora descritta non mi pare una mera costruzione astratta: ha una sua concreta esemplificazione nella situazione della politica italiana di questi ultimi decenni e sembra essere giunta a una fase in cui pare sia scomparso ogni possibile orizzonte verso il quale dirigere lo sguardo. Incanagliti nel presente, sembra non sia nemmeno pensabile un futuro che non abbia il medesimo grigio colore dell’oggi. Eppure, contro l’apparente imprescindibile condizionatezza dei vincoli derivanti dal mercato e dalla comunità internazionale è necessario – se si vuole trasformare questo incolore presente – ricominciare a pensare in grande, restituire spessore alle nostre vedute, avere il coraggio di osare, ridando vigore ed energia al pensiero divergente, quello che in passato si esprimeva nelle grandi narrazioni e nelle utopie. Perché, come ha detto Oscar Wilde, «Una mappa del mondo che non comprende il paese dell’Utopia è indegna finanche di uno sguardo, perché ignora il solo paese al quale l’Umanità approda continuamente. E quando l’Umanità vi getta le ancore, sta in vedetta, e scorgendo un paese migliore, di nuovo fa vela. Il progresso non è altro che l’avverarsi delle utopie»32.

E tuttavia la capacità di una forza politica che voglia organizzare una nuova volontà collettiva, di un gruppo dirigente che sia effettivamente capace di dare corpo e sostanza alla trasformazione della condizione presente, consiste nel sapere – per dirla con Gramsci – «connettere il mezzo al fine», in tal modo trasformando in volontà politica generale l’utopismo tipico delle «particolari volontà», che altrimenti finirebbe per essere solo «velleità, sogni, desideri»33.

 

Note

1 Cfr. J. Fourastié, Les Trente glorieuses ou La révolution invisible de 1946 à 1975, Fayard, Paris, 1979 (nuova edizione, Le Livre de poche, Paris 1980).
2 Cfr. D.H. and D.L. Meadows et al., The Limits to Growth, Universe Books, New York 1972. La ricerca è stata commissionata dal Club di Roma e dal MIT.
3 Cfr. E.J. Evans, Thatcher and Thatcherism, Routledge, London and New York 20042, pp. 3 e ss.

4 Cit. in C. Hutchinson, Reaganism, Thatcherism and the Social Novel, Palgrave Macmillan, New York 2008, p. 1.

5 Cfr. E.J. Evans, op. cit., p. 139: «The changing balance of work also disadvantaged the poor. […] [T]he real incomes of the poorest 10 per cent declined by 18 per cent, while those of the richest 10 per cent increased by 61 per cent. In 1979, the richest 10 per cent of the population held 20.6 per cento of the nation’s wealth and the poorest 10 per cent held 4.3 per cent. In 1991, the proportions were 26.1 per cent and 2.9 per cent respectively».
6 Cfr. J.S. Hacker, P. Pierson, Winner-Take-All. How Washington Made the Rich Richer – And Turned Its Back on the Middle Class, Simon & Schuster, New York 2010.

7 Cfr. C. Berlinski, “There is no alternative”: why Margaret Thatcher matters, Basic Books, New York 2008.

8 Cfr. N. Robinson, “Economy: There is no alternative (TINA) is back”, in BBC News, http://www.bbc.com/news/uk-politics-21703018.
9 Cfr. L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, Blackwell, Oxford 2001; J. Faux, The Global Class War, Wiley, Hoboken 2006; J.-M. Groven, L’apocalypse économique. L’hyperclasse mondiale à l’assault de l’économie et de la démocratie, Éditions de Paris, Paris 2011.
10 Il maggiore teorico della transizione alla società ed economia della conoscenza, Peter Drucker, mette in stretta relazione «la bancarotta – morale, politica, economica – del marxismo e il collasso dei regimi comunisti» con la fine di un’era, da lui caratterizzata dal «belief in salvation by society», e con l’avvento di una società post-capitalista, differente da quella capitalista, resa obsoleta dalle stesse forze che hanno portato al superamento del marxismo come ideologia sociale alternativa. In essa, «The basic economic resource – “the means of production” to use the economist’s term – is no longer capital, nor natural resources (the economist’s “land”), nor “labour”. It is and will be knowledge. The central wealth-creating activities will be neither the allocation of capital to productive uses nor “labour” – the two poles of nineteenth- and twentieth-century economic theory, whether Classical, Marxist, Keynesian or Neo-Classical. Value is now created by “productivity” and “innovation”, both applications of knowledge to work. The leading social groups of the knowledge society will be “knowledge workers” – knowledge executives who knowhow to allocate knowledge to productive use – just as the capitalists knew how to allocate capital to productive use; knowledge professionals; knowledge employees.» (Post-Capitalist Society, Butterworth – Heinemann, Oxford 1993, p. 7).
11 Cfr. F. Giavazzi, A. Alesina, Il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore, Milano 2007.

12 L. Undiemi, Il ricatto dei mercati. Difendere la democrazia, l’economia reale e il lavoro dall’assalto della finanza internazionale, Ponte alle Grazie, Milano 2014, 8. ebook, capp. 6 e 8.
13 Cfr. R. Scarpinato, “Prefazione” a L. Undiemi, op. cit.
14 L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, ed. ebook, Capitolo terzo. «La crisi è stata ed è l’esito di azioni compiute da un numero ristretto di uomini e donne che per lungo tempo, tramite le organizzazioni di cui erano a capo o in cui operavano, hanno perseguito consapevolmente determinate finalità economiche e politiche. Hanno compiuto quelle azioni in parte perché l’ideologia da cui erano guidate non consentiva loro di scorgere alternative; in parte per soddisfare i propri interessi o quelli di terze parti. Azioni compiute con la possibilità di avvalersi di risorse enormi, in campo economico come in quello politico, senza però darsi minimamente pensiero delle conseguenze che le azioni stesse potevano produrre a danno di un numero sterminato di individui. Il sistema che tali soggetti hanno costruito e guidato, il complesso politico-finanziario, era affetto sin dagli inizi da gravi difetti progettuali e aveva già manifestato nei decenni precedenti ripetuti segnali di malfunzionamento. Dinanzi alle sue cause e conseguenze, la crisi esplosa nel 2007 può essere definita come il più grande fenomeno di irresponsabilità sociale di istituzioni politiche ed economiche che si sia mai verificato nella storia. […] Nel sistema politico hanno contribuito alla crisi, sin dagli anni Ottanta quando ne elaborarono tramite i Parlamenti le fondamenta legali, un buon numero di componenti dei governi Usae Ue che si sono succeduti da allora a oggi; nonché membri di organizzazioni intergovernative, tra le quali spicca la Commissione europea. Più alcuni capi di Stato, fra i quali sono stati in primo piano ai loro tempi democratici come Bill Clinton e François Mitterrand. Agli attori suddetti vanno ancora aggiunti i dirigenti dei partiti politici che hanno espresso e sostenuto i governi in questione, nonché i parlamentari che ne hanno seguito le direttive, votando in quasi tutti i Paesi Ue alcune leggi presentate come sicuri rimedi alla crisi, mentre in realtà hanno finitoper aggravarla. Basti pensare agli inauditi interventi nel tessuto stesso delle sovranità politica ed economica degli Stati, costituiti dall’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio o dall’approvazione parlamentare del cosiddetto «patto fiscale» […].» (Ivi, Introduzione).
15 Cfr. G. Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfè, in Opere IV, vol. II, Feltrinelli, Milano 1973, p. 48.

16 Cfr. I. MacKenzie, “The idea of ideology”, in AA.VV., Political Ideologies. An introduction, Routledge, London and New York 1994, p. 2.
17 «Les sociétés humaines sécrètent l’idéologie comme l’élément et l’atmosphère même indispensables à leur respiration, à leur vie historiques. Seule une conception idéologique du monde a pu imaginer des sociétés sans idéologies, et admettre l’idée utopique d’un monde où l’idéologie […] disparaîtrait sans laisser de trace, pour être remplacée par la science.» (L. Althusser, Pour Marx, La Découverte, Paris 2005, p. 239).

18 T. Eagleton, Ideology. A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 1, 2. È chiaro che qui possono essere distinte due forme o accezioni di ideologia: quella tipicamente marxiana, in base alla quale essa è una forma di mascheramento di reali interessi di classe e quindi ha una funzione di distorsione o di velamento dei reali rapporti sociali, fungendo da ingannevole occultamento che impedisce la reale e veritiera percezione dei fatti; un esempio di questo modo di intendere è quello di Galvano Della Volpe, per il quale l’ideologia è un «corpo di idee aspiranti alla universalità e verità la più lata e astratta, ma rappresentative, soltanto – sebbene inconsapevolmente e dogmaticamente – di interessi storici parziali o di una data classe sociale: idee che sono per lo più idealistiche ipostasi» (Critica dell’ideologia contemporanea, in Opere, Editori Riunite, Roma 1973, vol. 6, p. 303). Ma v’è anche un modo più comprensivo di intenderla, proposto in particolare da certe correnti marxiste (come Althusser e lo stesso Lenin), per cui l’ideologia consiste nel complesso delle idee, concezioni e visioni del mondo che tengono insieme una società e che danno un senso alla partecipazione dell’uomo in progetti, iniziative e alla sua stessa vita. È evidente che nel primo caso, si assume implicitamente o esplicitamente l’esistenza di una visione “retta” del reale, ovvero di una “scienza” che sia in grado di darci l’effettiva cognizione di quanto accade, nel mondo come nella società; e non a caso il marxismo voleva esso stesso porsi come scienza e il socialismo si distingueva da quello utopistico per il suo essere “scientifico”, di contro al quale tutte le altre concezioni politiche ed economiche finivano per essere “ideologiche”. In questo caso potrebbe essere ulteriormente distinta una pratica dell’ideologia inconsapevole, propria di tutti coloro i quali credono in una concezione falsa ritenendola o supponendola vera, come avviene – in un’ottica marxiana, ovviamente – per tutti i sostenitori del sistema borghese-capitalistico in nome di parole d’ordine come libertà, diritti universali, libero mercato, ecc.; oppure consapevole, cioè organizzata e perseguita dai detentori dei mezzi di produzione come strumento di offuscamento delle coscienze e come forma di protezione del proprio potere, all’interno di una visione complessivamente cinica e disincantata della realtà (analogamente a quanto sosteneva un sofista come Crizia a proposito della religione). Nella seconda accezione di ideologia, invece, non viene privilegiata una particolare visione come “vera”, ma ci si mantiene all’interno di una concezione pluralista: ciascuna ideologia è funzionale a un contesto sociale, a una classe, a un milieu e ha valore non in assoluto, ma in quanto e nella misura in cui è in grado di mobilitare, motivare, reggere e dare un senso a coloro che in essa si riconoscono.
19 Cfr. F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, The Free Press, New York 1992.
20 Cfr. P. Sloterdijk, Critique of Cynical Reason (1983), University of Minnesota Press, Minneapoli / London 1987.
21 D. Fusaro, Il futuro è nostro, Bompiani, Milano 2014, p. 44.
22 G. Mosca, La classe politica, a cura di N. Bobbio, Bari, Laterza 1972, pp. 64-5. Tale tematica del potere della classe politica è stata sviluppata dal filosofo polacco Leszek Nowak, in Property and Power. Towards a non-Marxian HistoricalMaterialism, Reidel Publishing Company, Dordrecht / Boston / Lancaster 1983, e Oltre Marx. Per un materialismo storico non-marxiano, Armando, Roma 1987.
23 In ciò consiste il “materialismo storico non-marxiano” di Nowak, che estende tale antagonismo anche nel campo della cultura, con la contrapposizione tra “preti” e “laici”. Cfr. di L. Nowak, le opp. citt. alla n. 22.

24 A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Gerratana, Einaudi, Torino 1977, vol. III, p. 1760.
25 Su questi aspetti legati alla dimensione globale dei processi economico-finanziari e sulla sua incidenza nelle singole realtà nazionali e nel modo in cui essa ne determina l’economia non insisterò ulteriormente, rinviando alle ottime analisi in merito compiute da molti autori, tra i quali L. Gallino, del quale si vedano innanzi tutto Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011 e Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013. Qui mi concentrerò solo sugli aspetti che più direttamente investono le dinamiche interne alla dimensione della politica.
26 R. Michels, Political Parties. A Sociological Study of the Oligarchical Tendencies of Modern Democracy (1911), Batoche Books, Kitchener 2001.

27 Cfr. F. Fubini, R. Mania, “Corte dei Conti: le Regioni truccano i bilanci. Contestazioni a quasi metà dei governatori”, Repubblica, 3 novembre 2014 – http://www.repubblica.it/e conomia/2014/11/03/news/allarme_corte_dei_conti_le_regioni_truccano_i_bilanci-99624196/

28 E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari-Roma 1968, p. 6.
29 Fondamentale per descrivere tale nuova condizione della cultura italiana e il nuovo “sottoproletariato cognitivo” è la lettura di D. Miccione, Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, IPOC, Milano 2015.

30 M. Tarchi, “Intervista al Fatto Quotidiano”, ed. integrale inviata per e-mail agli iscritti della sua lista.
31 V. l’articolo Ansa, “Inps: le pensioni dei sindacalisti più alte degli altri lavoratori del 37%. Cgil: nessun privilegio, applichiamo la legge”, in http://www. huffington post.it/2015/09/05/pen sioni-sindacalisti-alte_n_8092354.html?utm_ hp_ref=italy
32 O. Wilde, Aforismi, Newton, Roma 1992, p. 32.
33 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 762.

 

*Tratto da FILOSOFIA STORIA POLITICA. STUDI DI STORIOGRAFIA FILOSOFICA OFFERTI A GIUSEPPE CACCIATORE, a cura di Giuseppe Bentivegna, Francesco Coniglione e Giancarlo Magnano San Lio, Bonanno, Catania, 2016