Il futuro della chimica

La chimica è, certamente, una scienza matura. Alcuni sostengono che sia anche una scienza finita. Che ha ancora poco da scoprire. Ed è destinata a “sciogliersi” in altre discipline. Ai chimici, dunque, non resterebbe che vivere perennemente in una condizione che lo storico Thomas S. Kuhn definiva, oltre mezzo secolo fa, di “scienza normale” e limitarsi ad applicare nei più vasti campi possibili le conoscenze di fondo già acquisite. Non sarebbe previsto alcun “cambio di paradigma” kuhniano in chimica.

Conviene, tuttavia, ricordare quell’ammonimento che, tra il serio e la celia, proponeva il fisico danese Niels Bohr: le previsioni sono difficili, soprattutto quando riguardano il futuro. In altri termini, è molto difficile prevedere il domani prossimo e remoto anche e soprattutto di una scienza come la chimica, tanto antica – era praticata già migliaia di anni fa in tutto il mondo, dall’antico Egitto all’antica Cina – quanto vasta. Una scienza che nel corso della sua storia ha subito molti “cambi di paradigma”.
D’altra parte, molti ricordano le parole del fisico inglese William Thomson, noto anche come Lord Kelvin, che in prossimità dell’anno 1900 dichiarava soddisfatto la fine della fisica: “Nulla di importante c’è da scoprire. Solo qualche dettaglio sfugge alla totale comprensione di noi fisici: la strana orbita intorno al Sole del pianeta Mercurio e la radiazione di corpo nero. Passano pochi anni e quei due dettagli si rivelano altrettanti cavalli di Troia per due rivoluzioni – quella della relatività e quella della quantistica – che generano una “nuova fisica”.

Non è affatto improbabile, dunque – come ha scritto John W. Moore, direttore sia del Journal of Chemical Education sia dell’Institute for Chemical Education presso la University of Wisconsin di Madison (Usa), ove è anche W. T. Lippincott Professor of Chemistry – che il futuro ci riservi “nuova chimica”.
Anche se oggi è difficile individuare, ammesso che ci siano, quei minuscoli dettagli attraverso cui potrebbe passare la rivoluzione che rimodellerà la chimica. Quello che possiamo fare in questa sede è indicare alcuni dei settori di punta o, come dicono gli inglesi, gli “challenging problems”, i problemi che più sfidano i chimici. E, quindi, discutere i mutamenti concettuali – o, persino epistemologici – che possono portare i chimici a indossare nuovi occhiali per vedere il mondo.

 

Le tre sfide di Giacomo Ciamician

Lo “challenging problem” indicato da Giacomo Ciamician in una famosa relazione sul “futuro della chimica” tenuta a New York l’11 settembre 1912 – “fare come le piante” – è più che mai attuale. Il chimico bolognese lanciava una sfida che, con gli occhi di oggi, ha tre aspetti che possono essere affrontati e risolti.
Il primo aspetto è la creazione di aggregati molecolari che – come la clorofilla – sono di notevoli dimensioni, facilmente deformabili, elastici, flessibili e assolvono a una funzione precisa anche in un ambiente non completamente controllato. Insomma, si tratta di creare grandi molecole analoghe a quelle esistenti nel mondo biologico. Questa sfida è stata accolta dai chimici una trentina di anni fa e ha dato luogo alla nascita di una nuova disciplina, la chimica supramolecolare, che oggi è sulla cresta dell’onda ma che non ha ancora esaurito il suo ciclo. La chimica supramolecolare continuerà a interessare i chimici nel prossimo futuro.

La seconda sfida lanciata da Ciamician è quella di mettere a punto “macchine molecolari” in grado di trasformare l’energia luminosa in energia biochimica o, addirittura, direttamente in energia elettrica. Oggi può essere considerato il più grande obiettivo della fotosintesi organica. Quello che impegnerà molti chimici negli anni a venire.
La terza sfida implicita nella proposta da Ciamician è di realizzare una chimica che aiuti l’uomo e la sua economia a diminuire l’impatto sull’ambiente, per esempio mettendo a disposizione una fonte rinnovabile di energia. Oggi tutti coloro indicano nella “green chemistry”, la chimica verde, uno dei grandi, se non il più grande, settore di sviluppo della chimica.
Non c’è dubbio, in definitiva, che per la chimica del futuro sarà ampiamente modellata dalle tre sfide lanciate con straordinaria preveggenza da Giacomo Ciamician esattamente un secolo fa.

 

Le sfide di Ciamician/1: la chimica supramolecolare

La chimica supramolecolare, come spiega il chimico e storico della chimica Salvatore Califano, studia sia il modo di creare molecole di notevoli dimensioni con una struttura, quasi sempre a più componenti, finalizzata a specifiche funzioni, spesso biologiche, sia le interazioni strutturali (legami intermolecolari a idrogeno; forze di van der Waals) che consentono di tenere insieme le diverse componenti.
Gli esempi di chimica supramolecolare – di molecole diverse tenute insieme da legami intermolecolari – in natura davvero non mancano. L’emoglobina, per esempio, è una proteina globulare con una struttura quaternaria formata da quattro grandi gruppi eme ciascuno dei quali è formato da proto porfirine che circondano un atomo di ferro. La stessa clorofilla è composta da una struttura ad anello, che circonda un atomo di magnesio, più una lunga coda idrofobica.

Lo studio di queste molecole complesse (presenti in natura è di antica data. Ma l’obiettivo di sintetizzarle in laboratorio e di crearne di nuove, non presenti in natura, è molto più recente. È solo negli anni ’60 del XX secolo, per esempio, che Charles J. Pedersen, presso i laboratori della Du Pont, sintetizza i primi «eteri corona», molecole cicliche «a forma di toro o ciambella» che circondano uno ione sodio e formano complessi piuttosto stabili. Nel 1967 Pedersen invia una nota al Journal of the American Chemical Society in cui descrive la sintesi di ben 49 nuovi composti organici, contenenti da un minimo di 9 a un massimo di 60 atomi (inclusi da 2 a 20 atomi di ossigeno), con una caratteristica forma a ciambella: un ciclo con un buco in mezzo. «Il “buco” – scrive Pedersen – stimato di 4 Å di diametro, è grande abbastanza da accogliere qualsiasi catione inorganico non solvatato o non coordinato». L’anello è un polietere. Di qui il nome: eteri corona.

Più tardi Donald Cram definirà questa nuova classe di composti come costituita da un host (una molecola ospitante) e un guest (una molecola, in genere più piccola, ospitata).
Ma già nel 1968, il francese Jean-Marie Lehn mette a punto delle strutture molecolari molto più rigide, in cui la relazione tra l’host e il guest non avvengono lungo un piano, come negli eteri corona, ma in uno spazio tridimensionale. In pratica la molecola ospitata, il guest, si viene a trovare completamente circondata dalla molecola ospitante, l’host, come fosse in una cripta. Lehn battezza, appunto, criptandi i suoi nuovi composti. Lehn dimostra che queste supramolecole possono assemblarsi da sole in soluzione, quando l’host incontra il giusto guest. Con un meccanismo che richiama quello toppa-chiave proposto da Emil Fischer nel XIX secolo per spiegare le interazioni tra un enzima e il suo substrato.

Un’ulteriore accelerazione nella nascita della chimica supramolecolare è stata data da Donald Cram nella prima metà degli anni ’70. L’americano, infatti, riesce a progettare host, molecole ospitanti, con cavità che per forma e dimensioni sono in grado di riconoscere e bloccare in maniera selettiva i propri guest, proprio come fanno le supramolecole biologiche.
Da quel momento in poi è stata progettata e sintetizzata un’enorme quantità di supramolecole dalle forme e dai nomi (oltre agli etere corona e ai criptandi, ci sono gli sferandi, i cavitandi, i clatrandi, ecc.) i più diversi. Tutte sono costituite da due o più molecole tenute insieme da forze intermolecolari.
Nel 1987 Pedersen, Lehn e Cram hanno ottenuto il premio Nobel per il loro lavoro pionieristico. Oggi i pionieri si sono definitivamente insediati nella terra della progettazione e sintesi delle supramolecole. La chimica supramolecolare viene utilizzata nella progettazione di nuovi farmaci e nella catalisi. È una parte importante delle nanotecnologie. Il suo obiettivo resta quello di raggiungere – e, perché no, anche superare – la complessità dei sistemi intermolecolari biologici. L’obiettivo è ancora lontano. Ma il traguardo inizia a essere intravisto. I chimici hanno acquistato la capacità di accettare la prima delle tre sfide lanciata da Giacomo Ciamician.

 

Le sfide di Ciamician/2: le macchine molecolari

Ma il settore dove la chimica supramolecolare, evolvendo, ha ottenuto, probabilmente, il massimo successo è quello relativo alla seconda sfida proposta da Giacomo Ciamician: la costruzione di vere e proprie macchine molecolari. Ovvero di supramolecole che, come le macchine del nostro mondo macroscopico, riescono ad effettuare lavoro.

Le supramolecole sintetizzate in laboratorio hanno, ormai, architetture molto complesse, in cui i diversi gruppi molecolari – per essendo legati in maniera stabile tra loro – hanno diversi gradi di libertà. Spesso possono muoversi nello spazio l’uno relativamente all’altro. E compiere lavoro. Come le due parti mobili di una pinza, come un ascensore in un palazzo, come un cilindro in un pistone, come un’elica, come un interruttore. Insomma, come una qualsiasi macchina.
L’italiano Vincenzo Balzani  (che lavora proprio nell’Istituto di Chimica di Bologna che fu di Ciamician e che ora è intitolato al chimico triestino) e l’inglese Fraser Stoddart hanno realizzato, nella seconda metà degli anni ’90, una vera e propria pinza molecolare, costituita da una molecola di azobenzene che, assorbendo un fotone, si chiude e cattura uno ione potassio. Il processo è perfettamente reversibile. E lo ione potassio può essere rilasciato, magari dopo averlo trasportato in una posizione desiderata.

Lavorando con altre nuove supramolecole, come catenani e rotassani, gli stessi Balzani e Stoddart hanno messo a punto un vero e proprio ascensore molecolare – diametro 3,5 nm (nanometri), altezza di 2,5 nm – costituito da due componenti molecolari legate meccanicamente loro come parti di un ingranaggio.  Il primo componente è una sorta di telaio a tre rami. Lungo ogni ramo ci sono due diverse “stazioni” in cui la seconda componente, una piattaforma costituita da tre anelli fusi tra loro, può fermarsi. La piattaforma sale e scende in funzione del pH della soluzione. L’ascensore sviluppa una forza di 200 piconewton, tutt’altro che trascurabile alla nanoscala.
Sempre Balzani e Stoddard hanno ottenuto, nel 2006, una macchina molecolare – un rotassano costituito a due componenti, un filo con due blocchi agli estremi e un anello – che riesce a fare proprio “come le piante”: utilizza l’energia luminosa per compiere lavoro. Assorbendo e cedendo fotoni, l’anello sale e scende lungo il filo.
C’è molto da lavorare ancora prima di raggiungere l’efficienza della fotosintesi naturale. Ma, ancora una volta, il traguardo indicato da Ciamician è uscito dal regno dell’utopia ed è diventato un progetto scientifico realizzabile.

 

Le sfide di Ciamician/3: la chimica verde

La chimica è l’unica tra le grandi discipline scientifiche ad avere il medesimo nome un’industria. Esiste, infatti, un”industria chimica”. Ma non esiste l’industria fisica o l’industria biologica (infatti, per le applicazioni industriali della biologia parliamo di industria biotecnologica). Non è una questione puramente nominale. Per molto tempo (per troppo tempo, dicono alcuni) la scienza chimica è stata e, per certi versi, si è identificata con l’industria chimica. Per di più con un’industria che ha avuto un così alto impatto ambientale da essere considerata l’emblema stesso della pollution, dell’inquinamento prodotto dalle attività umane.

Cinquant’anni fa (e cinquant’anni dopo il progetto ecologico di Giacomo Ciamician), nel 1962, l’americana Rachel Carson ha scritto The Silent Spring (tradotto in italiano come  La primavera silenziosa). Un libro che secondo alcuni ha dato una decisiva accelerazione alla formazione di una coscienza ecologica di massa. Ebbene col suo libro Rachel Carson era proprio l’”industria chimica” che metteva in discussione, colpevole di produrre le sostanze (i pesticidi di sintesi) che impedivano agli uccelli di nascere e rendendo, appunto, sempre più silenziose le primavere nelle sconfinate campagne americane.
L’industria chimica è salita ancora sul banco degli imputati a causa di una serie di incidenti – Seveso (Italia), 1976, diossina; Love Canal (Usa), 1978, rilascio di diossina; Bophal (India), 1984, rilascio di isocianato di metile – con conseguenze così gravi, spesso così tragiche, che non solo hanno colpito l’attenzione dei mass media l’immaginario delle persone, che hanno portato alcuni studiosi, nella fattispecie il tedesco Ulrich Beck, a definire la nostra come “la società del rischio” e che hanno, infine, prodotto le prime grandi serie di “leggi ambientali” a tutela della sicurezza dell’uomo e dell’integrità. Grazie anche a queste leggi, oggi l’industria chimica non genera più “emergenze ambientali” come in passato. Tuttavia essa fornisce ancora oggi un contributo importante ai problemi strutturali dell’impatto umano sull’ambiente. Negli Stati Uniti, secondo l’Environmental Protection Agency (EPA), negli ultimi venti anni, dopo il 1991, sono stati prodotti 278 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi, collocati in 24.000 siti. Una parte rilevante di questa enorme quantità di rifiuti deriva da industrie chimiche. Ogni anno in Italia vengono prodotti più di 50 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi, tra cui anche rifiuti tossici e nocivi. Molti, narrano le cronache, sono prodotti dall’industria chimica. Molti sono smaltiti in maniera illegale e dispersi sul territorio.

Naturalmente, l’industria chimica non è stata e non è solo pollution, inquinamento. Al contrario, è un’industria che informa di sé l’economia – la Royal Society di Londra calcola che il 20% del Prodotto interno loro del Regno Unito sia dovuto alla chimica – e la stessa vita sociale: la plastica (prodotto di sintesi) ha segnato un’epoca; la pillola anticoncezionale ha accompagnato e, secondo alcuni, ha consentito la più grande rivoluzione del XX secolo: la rivoluzione femminile.

Naturalmente, la scienza chimica non è stata e non è omologa dell’industria chimica. E nello sforzo, in atto, di riconquistare una totale autonomia, i chimici (intesi come scienziati) non devono perdere i loro contatti con il sistema produttivo. Al contrario, la chimica (intesa come scienza) deve porsi sempre più il problema di cambiare la chimica (intesa come industria). Mettendo a punto prodotti e processi che, come auspicava Ciamician, facciano il bene generale dell’intera umanità e non solo il bene locale dell’impresa. Come sostiene Paul Anastas, direttore del Center for Green Chemistry and Green Engineering presso la Yale University e “teorico della chimica verde”, occorre che i chimici mettano a punto una chimica applicata a basso impatto ambientale: «più efficace, più efficiente e più elegante». Ovvero, semplicemente, che facciano una chimica migliore.

La green chemistry è dunque il terzo grande obiettivo, per così dire, “ciamiciano” che i chimici sono intenzionati a raggiungere. Come?
Obiettivo della “chimica verde”, non è – non deve essere, sostiene Paul Anastas fin dal 1991 – solo quello di rendere più “puliti” i processi e i prodotti attuali, ma ridisegnare il sistema produttivo chimico dalle fondamenta. In modo tale che sia l’intero ciclo di produzione – dalla sintesi alla gestione dei rifiuti – più sicuro, più ecologico e più efficiente da un punto di vista energetico. In generale significa sintetizzare prodotti a partire da materia prima rinnovabile ed eliminare del tutto la generazione di rifiuti tossici e nocivi.
Più in dettaglio, Paul Anastas e il suo collega John Warner hanno redatto una road map che la scienza chimica dovrebbe seguire per aiutare l’industria chimica a diventare ecologicamente sostenibile. Sono i «dodici principi della chimica verde».

Tabella

I dodici principi della chimica verde

1 Waste Prevention Prevenire la produzione di rifiuti. Piuttosto che impegnarsi nel trattare in maniera più sicura i rifiuti prodotti, i chimici devono impegnarsi nell’immaginare “cicli di produzione” in grado di prevenire la generazione di rifiuti.
2 Atom Economy Economia dell’atomo. Significa progettare metodi di sintesi chimica in cui gli intermedi di reazione sia il più possibile incorporati nel prodotto finale.
3 Safer Synthesis Sintesi più sicura. Significa progettare metodi di sintesi chimica in cui non si generano sostanze tossiche.
4. Safer Products Prodotti più sicuri. Significa progettare prodotti di sintesi che non siano tossici o comunque pericolosi.
5 Safer Auxiliaries Ausiliari più sicuri. Significa sia rendere minimo l’uso di solventi e di altre sostanze ausiliarie pericolose, sia mettere a punto nuovi processi in cui è previsto l’uso di solventi e altre sostanze del tutto innocui.
6 Energy Efficiency Efficienza energetica. Significa rendere minimo il consumo di energia nel corso delle reazioni chimiche. E, possibilmente, progettare reazioni che avvengano a temperatura e pressione ambiente.
7 Renewable Feedstocks Usare biomasse o comunque materia prima rinnovabile. La biosfera è una formidabile fabbrica chimica. Possiamo non solo imparare a fare “come fa la natura”, ma anche utilizzare direttamente le sostanze naturali, soprattutto se e perché rinnovabili. Si eviteranno così problemi di “depletion”, di esaurimento dei capitali della natura.
8 Derivative Reduction Riduzione dei derivati. Significa mettere a punto reazioni chimiche “più corte”, ovvero con un minor numero di sostanze intermedie, che spesso diventano rifiuti.
9 Catalysis Catalisi. Incrementare l’uso di reagenti catalitici invece che dei reagenti stechiometrici. Significa, in pratica, imparare a usare di più sostanze che in piccola quantità riescono ad accelerare le reazioni chimiche, invece che sostanze che partecipano alla reazione stessa.
10 Degradability. Degradabilità. Significa mettere a punto reazioni in cui il prodotto finale (ma anche gli intermedi) sia degradabile, in modo che anche se finisce come rifiuto in discarica esso si trasformi in composti innocui e facilmente assimilabili dall’ambiente. È quello che succede con il passaggio dai sacchetti di plastica in poliolefine di sintesi ai sacchetti biodegradabili. Occorre, tuttavia, fare attenzione a fenomeni come l’eutrofizzazione: ovvero di impatto sui sistemi ecologici dovuto a immissione eccessiva di nutrienti.
11 Pollution prevention Prevenzione dell’inquinamento. Significa sviluppare metodi per il monitoraggio e il controllo in tempo reale dei processi chimici che producono comunque sostanze pericolose.
12 Accident prevention Prevenzione degli incidenti. Significa mettere a punto  processi e pratiche capaci di annullare o, almeno, rendere davvero minimo il rischio di incidenti a impianti come quelli di Seveso, Leva Canal e Bophal.

I “dodici principi della chimica verde” proposti da Paul Anastas and John Warner all’inizio degli anni ’90 e successivamente integrati si prestano ad almeno tre considerazioni. La prima è quella proposta dalla rivista Nature, quando, pubblicando nel 2011 un servizio sull’argomento, ha titolato: “It’s not easy being green”: non è poi così facile diventare verdi. Anche se in questi venti anni l’industria chimica, soprattutto in Europa e in Nord America, ha fatto registrare indubbi progressi, è anche vero che, da un lato, i progressi sono inferiori a quanto sperato dai due chimici e dall’altro molti dei processi e delle pratiche più a rischio sono state trasferite nei paesi a economia emergente o ancora in via di sviluppo.

La seconda considerazione è se la rivoluzione culturale proposta da Paul Anastas and John Warner abbia almeno attecchito nei centri di ricerca. In parte sì. Oggi in molti laboratori si fa ricerca nell’ottica proposta dai due americani. E i progressi scientifici verso la chimica verde – si pensi alle “macchine molecolari” che cercano di “fare come le piante” e trasformare l’energia solare rinnovabile in energia elettrica – sono molti. Occorrerebbe, tuttavia, che le nuove conoscenze dalle università trovassero il modo di trasferirsi rapidamente alle imprese industriali.

La terza considerazione è se quei dodici principi, anche se applicati integralmente, trasformerebbero davvero quella chimica in un’industria verde. Molti ritengono che l’applicazione dei 12 principi è condizione necessaria, ma non sufficiente per il “greening” dell’industria chimica. Come hanno scritto George M. Whitesides (Woodford L. and Ann A. Flowers Institute Professor presso la Harvard University di Cambridge, Massachusetts, Usa) e John Deutch (docente di chimica presso il Massachusetts Institute of Technology) Nature, il progetto della chimica verde funziona bene per risolvere i problemi del secolo scorso, ma non è in grado di risolvere i problemi ben più complessi del nostro secolo, come la gestione globale delle risorse naturali. Per risolvere questo tipo di problemi occorrono cambiamenti fondamentali.  Che per avere un sistema produttivo integralmente ecologico occorre modificarne nel profondo il modello. Ma questo è un problema squisitamente politico.
Certo, “fare di più con meno” è una grande sfida non solo industriale ed ecologica, ma anche scientifica. Forse la più importante per la chimica del futuro.

 

Altri obiettivi

Naturalmente la chimica ha anche altri obiettivi. Molti gruppi, per esempio, sono impegnati nel campo di nuove sintesi inorganiche. Dopo la scoperta del fullerene, nel 1985, da parte di Harold Kroto e Richard Smalley non solo di una nuova molecola (C60, dalla caratteristica forma a “pallone di calcio”), ma di un nuovo stato allotropico del carbonio, molti chimici hanno indirizzato i loro studi verso la scoperta di nuovi fullereni: sono state identificate molecole stabili di C70, C76, C78 e C84, oltre che di strutture più ramificate e di nanotubi. Ora molti sono alla ricerca di “fullereni giganti”, composti sferoidali costituiti da 240, 540, 1500 e persino 2160 atomi di carbonio.

Ma anche lo gli strati monoatomici di carbonio – chiamati grafene – hanno suscitato di recente notevole interesse. In definitiva:fullereni, nanotubi, fullereni giganti e grafene hanno caratteristiche chimiche e fisiche molto particolari, tanto da dare lavoro sia ai chimici teorici che ai chimici industriali.

Anche la chimica organica, ovviamente, è proiettata verso il futuro. Molto promettente sembra essere la cosiddetta “chimica combinatoria”, che potremmo definire un metodo utilizzato sia negli studi di base sia nei laboratori di chimica applicata per ridurre i tempi e i costi nella sintesi e nella produzione di nuove molecole soprattutto in campo farmaceutico, agrochimico e biotecnologico. In pratica il chimico combinatorio, grazie a tecniche automatiche e di miniaturizzazione, oltre che attraverso la simulazione al computer, cerca di creare grandi popolazioni o, se si vuole, intere biblioteche di molecole diverse (libraries, in inglese) che possano essere studiate “in massa”. L’obiettivo è di trovare più facilmente, attraverso lo studio statistico ma non del tutto casuale, sostanze e composti di interesse terapeutico e commerciale.

Non ha smesso di suscitare interesse la chimica dei polimeri. Oggi l’obiettivo è di trovare “materiali intelligenti”, in grado di modificare le proprie caratteristiche al mutare delle condizioni ambientali.
In notevole sviluppo è la nanochimica, ovvero quella parte delle nanoscienze e delle nanotecnologie, che si occupa di sintesi e di analisi alle dimensioni nano (tra 1 e 100 nanometri, ovvero tra 10-7 e 10-9 metri).
Per cambiare completamente ambito, molti sono impegnato nell’astrochimica: la chimica delle sostanze presenti nello spazio fuori dall’atmosfera terrestre. Un tipo di ricerca che si salda con quello, antico ma non risolto, sull’origine della vita. Ancora, è un settore che suscita notevole interesse lo sviluppo delle capacità di analisi delle sostanze in tracce. E, naturalmente, continuerà a dominare il futuro dei chimici il grande comparto della chimica biologica.

 

Una nuova cultura chimica

Ma, più che analizzare in dettaglio i campi promettenti della chimica, conviene passare brevemente in rassegna le nuove richieste che vengono rivolte alla chimica e i nuovi approcci di cui hanno bisogno i chimici per rispondere. In altri termini, conviene delineare i contorni della nuova cultura chimica necessaria per affrontare i problemi del XXI secolo.

Ora, come rileva il chimico giapponese Nryoji Noyori dell’Università di Nagoya, la chimica storicamente ha studiato sia la strutture che le caratteristiche delle sostanze a livello atomico e molecolare (problema su cui torneremo), con lo scopo di creare nuovi composti con proprietà e funzioni desiderabili. Oggi in ciascun settore – da quello nano a quello bio fino a quello astro – non basta più una “semplice cultura chimica”, ma occorre mettere insieme e ibridare diverse culture. In altri termini i chimici (ma anche altri scienziati) devono assumere sempre più una “cultura interdisciplinare”. Facile a dirsi, difficile a realizzarsi. L’interdisciplinarità è la grande sfida che il futuro lancia non solo alla chimica, ma a tutte le scienze.

Già, l’interdisciplinarità.  Ma per risolvere, in linea prioritaria, quali problemi?  George M. Whitesides e John Deutch non hanno dubbi: i chimici devono porsi nella prospettiva di risolvere i “problemi che interessano i cittadini (e per cui i contribuenti pagano)”.  Questi problemi «sono troppo complessi per essere risolti da un insieme di diverse discipline conservative». Anche per i due americani, dunque, la strada è della rifondazione disciplinare. Occorre assumere la cultura della “complessità dei fenomeni” che interessano i cittadini. E non bisogna temere che la soluzione di “problemi pratici” determini una volgarizzazione della chimica. Al contrario, sostengono Whitesides e Deutch, la storia dimostra che molte scoperte fondamentali – nel settore dei catalizzatori o dei polimeri, per esempio – sono state realizzate nel tentativo di risolvere problemi pratici. Che in genere sono problemi più intriganti di quelli che si pongono i chimici accademici, guidati come sono più che da un’indomabile curiosità da un sistema conservativo di peer-review.

La provocazione dei due chimici americani è intelligente, anche se, probabilmente, non deve essere presa alla lettera. La storia dimostra sì che la chimica si è sviluppata anche per rispondere a problemi pratici. Ma non solo per rispondere a problemi pratici. La curiosità senza finalità immediate resta un driver molto potente della scienza e anche della chimica.
Anche perché tra i “problemi pratici” da risolvere possiamo includere lo studio della vita come rete di reazioni (e di relazioni) chimiche. Una rete di reazioni e di relazioni che si estende soprattutto nel mezzo acquoso. E l’acqua è tra i composti chimici più interessanti che si conoscano. Questo tipo di studi, che richiede un approccio interdisciplinare, interessa sia il chimico mosso da curiosità sia il chimico mossa dalla necessità di risolvere “problemi pratici”. Altrettanto si può dire per il contributo della chimica alla comprensione delle basi molecolari delle malattie; alla gestione globale delle risorse naturali; alla produzione, stoccaggio e conservazione  dell’energia (solare e non); alla gestione dell’acqua potabile; allo studio, alla prevenzione e all’adattamento ai cambiamenti del clima.

Quello che tuttavia va colto nella provocazione di George M. Whitesides e John Deutch è l’invito a “ripensare” la chimica e il lavoro dei chimici. Un po’ come fece Robert Boyle quando, nel 1661, pubblicò The Sceptical Chymist (Il chimico scettico) e accelerò la transizione dalla chimica aristotelica e dall’alchimia alla chimica moderna.

 

Un obiettivo per il futuro: una nuova “filosofia chimica”

Il rapporto tra scienza e tecnologia è strutturale. Non c’è scienza senza tecnologia. E, ormai, non c’è innovazione tecnologica sistematica senza conoscenza scientifica profonda. Tuttavia questo rapporto inestricabile non deve avere un dominatore assoluto. La scienza può farsi guidare dall’esigenza di risolvere “problemi pratici”, ma non deve essere e non deve sentirsi subalterna alla tecnologia fino al punto da negare a se stessa ogni altro valore se non quello di generatrice di tecnologia.
Ciò vale anche per la chimica. Anzi, soprattutto per la chimica.

Il discorso si fa facendo filosofico. E vedo già molti chimici scappare. Ma questo è uno dei punti fondamentali in questione. Per troppo tempo è mancata – e per troppo tempo questa condizione è stata accettata dai chimici come naturale – una “filosofia chimica”. Mentre al contrario esistono da tempo una filosofia della fisica, una filosofia della biologia. Una filosofia della matematica (fra poco cercheremo di spiegare perché mettiamo la matematica a parte, rispetto alla fisica e alla biologia).
Gli storici delle idee scientifiche ci dicono che in passato i chimici hanno cercato di definirla, una dimensione filosofica propria della loro disciplina. Nel Seicento, per esempio, esisteva una vera e propria “filosofia chimica” distinta e per certi versi contrapposta” alla “filosofia fisica”. Jan Baptist van Helmont o Robert Fludd pensavano, come Galileo, che il grande libro della natura è scritto in un linguaggio attingibile alla ragione. Ma pensavano che la lingua universale non fosse quella matematica proposta da Galileo, ma fosse appunto la lingua della chimica. L’affermazione della visione meccanicistica del mondo – cui Rober Boyle ha fornito un notevole contributo – ha attenuato la ricerca di una autonoma filosofia chimica. Ricerca che sembra quasi terminare quando, poi, nel XX secolo viene elaborata la meccanica quantistica e molti iniziano a considerare la chimica, per dirla con il fisico Paul Dirac, “fisica quantistica applicata”.

Ovviamente oggi non è possibile in alcun modo pensare i fondamenti della chimica al di fuori del quadro quantistico. Tuttavia – come sostengono in molti, anche non chimici, per esempio il filosofo Karl Popper o il biologo Jacques Monod – non è possibile ridurre la chimica alla fisica.
La chimica, proprio come la biologia, ha una dimensione propria. Con uno statuto epistemologico autonomo (ma non separato) rispetto alla fisica. Solo che mentre alcuni biologi – si pensi a Ernst Mayr – si sono impegnati (riuscendoci) nella ricerca di una filosofia autonoma della biologia, non altrettanto è avvenuto in ambito chimico. In tempi recenti i chimici non hanno cercato – non abbastanza, almeno – di definire una filosofia autonoma del proprio ambito di studi.

Tutto ciò ha avuto conseguenze pratiche. Una di queste è che nuove frontiere di ricerca a cavallo tra le discipline vengono ormai attribuite alla fisica (si pensi alle nanoscienze) o alla biologia (si pensi alla biologia molecolare), mentre i fondamenti sono tipicamente chimici. Non è solo un problema di terminologia o di equilibrio tra poteri accademici. È anche una questione di contenuto. Capita che nell’ambito degli studi di nanoscienze o di biologia molecolare l’approccio dei chimici, pur essendo talvolta più penetrante, sia trascurato o non abbastanza valorizzato.
Sia detto per inciso, una delle conseguenze della mancata ricerca di una propria forte identità epistemica ha favorito il processo di sovrapposizione di immagine tra industria chimica e scienza chimica. Spesso, anche tra gli stessi chimici.

Inoltre non ha favorito la capacità della comunità chimica di dialogare con il grande pubblico. Una capacità decisamente inferiore a quella di fisici,  biologi e matematici. Un esempio: il bisogno di riscattare l’immagine della fisica nucleare dopo Hiroshima e la corsa al riarmo atomico ha portato un fisico, Frank Oppenheimer, a realizzare l’Exploratorium di San Francisco e a inaugurare la felice stagione della comunicazione della scienza, quella degli science centres, i musei di nuova generazione in cui è “vietato non toccare”. Non è un caso che in Italia siano stati dei fisici – Paolo Budinich a Trieste, Vittorio Silvestrini a Napoli – a creare science centres.
Analoghe esperienze sono state fatte dai matematici e, più di recente, dai biologici. Quasi mai da chimici.
Si dirà: la comunità chimica non ha cercato di elaborare con forza una propria autonoma filosofia perché la chimica ha una dimensione culturale diversa dalla fisica e dalla biologia, i cui ambiti sono più chiaramente definiti. Molti chimici sostengono – il compianto Alfonso Maria Liquori, per esempio – che la chimica somiglia più alla matematica, che alla fisica e alla biologia. È una scienza «trans», uno strumento utile in ogni ambito di studio della natura. È dunque – come la matematica – serva e nel medesimo tempo padrona di tutte le scienze naturali.

Tuttavia proprio questa somiglianza con la matematica rafforza i precedenti argomenti e consente di superare la contraddizione, solo apparente, tra la necessità di soddisfare una domanda di interdisciplinarità e quella di affermare una propria autonoma identità, un proprio modo di vedere il mondo naturale.
I matematici – rappresentanti di una scienza “trans” – hanno coltivato con forza e profondità di pensiero la ricerca di una “filosofia matematica”. Questo ha consentito alla matematica sia di conservare uno statuto epistemologico proprio sia di affermare un’immagine forte e solida della “scienza dei numeri” presso il grande pubblico dei non esperti. Basta dare uno sguardo agli scaffali dei libri di divulgazione della scienza in una qualsiasi libreria per verificare che la matematica è presente almeno quanto la fisica e la biologia, al contrario della chimica, che occupa spazi decisamente inferiori.

Questa scarsa propensione filosofica dei chimici nel corso del XX secolo – o, detta in altro modo, la scarsa capacità dei chimici del XX secolo di proporre una “lettura del mondo con gli occhiali della chimica” – sembra volgere al termine. Sta, infatti, aumentando la capacità dei chimici di elaborare una propria matura filosofia della natura. Un esempio per tutti, tra quelli che hanno avuto un impatto presso il grande pubblico. Il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha proposto dieci anni fa il termine e il concetto di “antropocene”. La proposta ha avuto successo. Il concetto e anche il termine sono diventati cultura diffusa. Elaborando la sua proposta, Paul Crutzen non ha solo fornito un quadro teorico solido per spiegare come l’uomo sia diventato un attore ecologico globale, capace di interferire nei grandi sistemi biogeochimici globali, come il clima. Ma ha anche dato una chiara dimostrazione di quanto profonda possa essere la visione chimica del mondo non in contrapposizione, ma in sinergia con la visione fisica e/o biologica e/o matematica.

Ecco, dunque, un mandato per i chimici del futuro (prossimo): approfondire il tema della loro autonomia, anche epistemologica, della loro disciplina. Leggere il mondo con gli occhiali della chimica.
Ci sono, disponibili, diverse lenti. Tra le prime c’è quella delle molecole. Se è vero, infatti, che alla base di tutti i processi chimici c’è la fisica quantistica, è anche vero che le principali unità di riferimento della chimica, le molecole, presentano “emergenze” che non possono essere interamente spiegate in termini quantistici. Possiamo leggere il mondo, in particolare il mondo biologico), come una rete di reazioni e di relazioni tra molecole?
Un altro insieme di lenti è quello relativo al ruolo della chimica nello “spazio delle scienze”. La chimica non deve essere più considerata come il cuscinetto tra la fisica e la biologia. Ma deve essere considerata un po’ come la matematica: scienza trans, dunque serva e padrona di tutte le scienze. Uno strumento utile e spesso indispensabile in ogni ambito dello studio della natura. Un insieme di ponti ciascuno dei quali consente di connettere la dimensione non biologica, la dimensione biologica e anche la dimensione cognitiva del mondo.

Un terzo paio di occhiali è quello che riguarda il rapporto tra la chimica (tra la visione chimica del mondo) e la società. Forti di una loro “filosofica della natura”, i chimici non devono perdere i loro contatti con il sistema produttivo. Ma, al contrario, devono assumere un ruolo di guida e porsi sempre più il problema di cambiarlo. Mettendo a punto, tra l’altro, prodotti e processi che mirino a realizzare il bene generale dell’intera umanità e non solo il bene locale dell’industria. In fondo quella che propone Paul Anastas, una chimica «più efficace, più efficiente e più elegante» è, semplicemente, una chimica più avanzata.

 

Bibliografia

AA. VV., Celebrating Chemistry, Nature, vol. 469, 6 gennaio 2011.
Salvatore Califano, Storia della chimica, vol.I, Bollati Boringhieri, 2010.
Salvatore Califano, Storia della chimica, vol.II, Bollati Boringhieri, 2011.
Luigi Cerruti, Bella e potente. La chimica del Novecento tra scienza e società, Editori Riuniti, 2003.
Thomas S. Kuhn, The structure of Scientific Revolutions, The University of Chicago Press, 1962.
John W. Moore, What’s the Future of Chemistry?, Chemical Education International, Vol. 1, No. 1, 8-10 , 31 agosto 2000.