Modelli psicologici: conflitti e prospettive

Una delle realtà che caratterizza lo stato attuale delle ricerche sul cervello (in relazione al comportamento individuale e sociale) è l’attitudine competitiva e accantonatrice da parte delle Neuroscienze (NS) nei confronti della Psicologia, incluso il cognitivismo con i suoi modelli di information processing eccetera e la Psicologia sperimentale. “Che risultati sono e cosa ci dicono se non so come c’è entrato il cervello?”; “Ora spieghiamo noi le condotte umane riconducendole non a costrutti e nozioni di senso comune o metafisiche ma direttamente ai processi neurali che le producono e in cui consistono!”. Da qui il saltare la Psicologia e i suoi costrutti per costruire ponti diretti di neuro-economia, neuro-etica, neuro-estetica, neuro-politica…
Questa attitudine è storicamente e sociologicamente comprensibile[1] ma dal punto di vista “scientifico” è ingiustificata e non produttiva.

 

“Anticipazioni” (da buon mentalista)

L’attuale tentativo e obiettivo di scavalcamento della “mente” mi induce a palesare alcune mie profezie (che molti considereranno non solo ingenue ma autoconsolatorie e difensive):

  • Il cervello ci darà ragione, a noi cognitivisti[2]. Il cervello darà ragione della “mente”, come apparato di costruzione ed elaborazione di rappresentazioni e regolazione della condotta sulla base delle rappresentazioni del mondo (passato, attuale e futuro) e della condotta stessa.
  • Vincerà l’idea dei “mediatori” mentali dei fenomeni sociali, comportamentali e cognitivi (vedi il paragrafo 4) e della loro non completa e non esplicita mentalizzazione, internalizzazione e comprensione.
  • Vincerà l’idea della composizionalità degli stati psichici complessi e di tratti/componenti comuni e distintivi, e del fatto che una data configurazione è un pattern, una gestalt caratterizzata da suo specifico ruolo e funzione che non è la sommatoria di quelle delle sue singole parti e in cui le parti a loro volta acquisiscono un ruolo e funzione specifica in quella forma e macro-funzione (come un segmento di retta che “diventa” e viene visto e trattato come “lato” nel formarsi della gestalt poligono) (Miceli e Castelfranchi 2014).
  • Vincerà l’idea degli scopi come rappresentazioni anticipatorie per la scelta e la guida e regolazione delle condotte; ma anche come nucleo cruciale delle risposte emotive; sorretti da credenze ma influenzanti il credere.
  • Vincerà l’idea delle credenze come “assunzioni” pragmatiche, come assunti per decidere e per agire su tale “base” (dando per buono che…); e con dei gradi di certezza – anche basati su supporti e ragioni e fonti, e quindi gradi di rischio/fiducia.
  • Vincerà l’idea che le rappresentazioni sono di ogni natura e formato, a cominciare da immagini manipolabili (riattivazioni, evocazioni) percettive e motorie. “Rappresentazione” non è qualcosa di necessariamente “astratto”, “proposizionale”, … ma comprende il senso-motorio (non dimenticando per es. “intelligenza”, “pensiero” senso-motori di Piaget e Claparède), il percettivo. La percezione è la costruzione di una rappresentazione; agire si basa su rappresentazioni motorie e sensorie anticipatorie e a feedback. Agire “sapendo/capendo” che il bicchiere è colmo d’acqua non è necessariamente una proposizione (oggetto dell’assumere), può essere una immagine visiva comparata con una immagine anticipatoria; è di fatto una “credenza” sul mondo che io posso e devo matchare con il mio set-point/scopo quando agisco per riempire il bicchiere.

 

Tesi centrale

Le questioni di questo lavoro[3] sono in realtà due:
– Quale sia il corretto nesso tra mente e cervello e loro modelli; con l’idea che mere correlazioni non sono sufficienti e sono spesso superficiali e devianti; e con l’idea che le teorie debbano includere dei veri “modelli” dei processi (cause prossimali) che producono e controllano la condotta degli individui. E quindi “mappe” cerebrali non bastano, sono piuttosto descrittive che esplicative, e servono modelli di “processamento della informazione” ad alto livello funzionale, nel cervello.
– La tesi che per spiegare la condotta umana a livello sociale la mente e la sua conoscenza non bastano e ci vuole una teoria delle funzioni emergenti, dei fenomeni auto-organizzantisi (e non capiti e intesi), dei livelli micro-macro e del loro circolo di mantenimento bottom-up e top-down.

Tuttavia vi è uno stretto legame tra questi due punti: la necessità di una visione stratificata della realtà, di diversi livelli di organizzazione emergenti l’uno dall’altro (dal micro al macro) e retroagenti dal macro al micro[4]. Questa complessità e autorganizzazione non solo vale dall’individuo al sociale e al collettivo, ma anche dai micro processi neurali alle macro-funzioni cerebrali, e dal cervello alle attività mentali, e dai micro-costituenti cognitivi (come credenze, scopi) a complesse gestalt di stati mentali, come l’“intenzione” o l’“aspettativa” o la fiducia, o emozioni come la speranza o la delusione (Miceli e Castelfranchi 2014).

 

Neuro-implementazione dei processi e rappresentazioni psichiche

Come abbiamo detto, per spiegare un dato comportamento dobbiamo identificare le sue “cause prossimali”, processi ed entità sottostanti, che tuttavia non sono riducibili ai micro-processi neuro, ma sono macro-“funzionali” e “rappresentazionali”. Naturalmente anche i processi neuro sono in realtà “information processing” e funzionali: contano per la funzione che svolgono, per cosa fanno, a che servono (nozioni come “attivazione”, “inibizione”, “connessione”, …), ma a “livelli” inferiori.
Una NS della condotta umana dovrebbe in primo luogo darci il modellamento neurale dei meccanismi e processi postulati dalle Scienze cognitive.

Non dovrebbe darci una semplice “cartografia” cerebrale di comportamenti e stati soggettivi, mostrandoci “dove” hanno “luogo”. La cartografia non è mai stata una scienza; essa è semplice descrizione, non spiega nulla. Il problema è capire cosa sta avvenendo lì, a cosa “serve”, cioè le funzioni in atto: la Neuroscienza ci deve dare la implementazione cerebrale/corporea di specifiche funzioni e modelli di elaborazione di rappresentazioni, che determinano la condotta.
Come dicevo, l’atteggiamento prevalente è invece di aggirare la Psicologia e suoi modelli di information-processing, loro steps e manipolazione di rappresentazioni, per connettere direttamente comportamenti e cervello.
Al contrario le NS dovrebbero acquisire i modelli processuali (e possibilmente computazionali) delle scienze cognitive e trovare il loro substrato, fondazione neurale e biochimica, oppure – quando questo risultasse non fattibile – cambiare tali modelli, che se non possono essere ricondotti e fondati nei processi somatici e cerebrali sono semplicemente sbagliati e da abbandonare.

Attualmente solo una minoranza di scuole e di approcci vanno in questa direzione ben più promettente e interdisciplinare: analizzare le specifiche “implementazioni” dei processi psichici e loro modelli nelle funzioni e processi cerebrali. Con l’obiettivo di dare un fondamento materiale (loro usano embody) alle funzioni cognitive nel loro substrato fisico e informazionale. Un prototipo eccellente è per esempio il lavoro del gruppo di Friston su “the physical dynamics in the brain that implement the functions and psychological mechanisms (confidence, expected utility, attainability, inferences, etc.)postulated in decision-making processes” (Friston et al. 2013)[5].
Tuttavia, a mio modo di vedere, la tentazione della scorciatoia è presente, anzi dominante, ed è distorcente.

Il problema è se saranno le NS in grado di distinguere per esempio tra:
– mera anticipazione/previsione di sanzioni o premi, dove il risultato previsto (e magari desiderabile) è rappresentato;
– e quando invece questa rappresentazione anticipatoria svolge il ruolo di nostri scopi, che vorremmo si realizzassero;
– e tra queste ultime cogliere la differenza cruciale tra quelle che semplicemente ci aspettiamo e ci fanno piacere e quelle che invece ci “motivano”, in vista delle quali agiamo; non aggiuntive ma necessarie e sufficienti?

Questi distinguo sono cruciali per la teoria della condotta umana. Non basta vedere/mostrare che si attiva una area che ha a che fare con le emozioni (magari pro-sociali) o con il timore, o che si attivano aree relative alla “previsione”, o che vi è una certa sostanza che attiva una certa disposizione. Senza una tale distinzione non è possibile:
– nessuna distinzione tra agire per principi e valori, senso del dovere, ecc. o agire per mero calcolo e per evitare punizioni;
– nessuna teoria degli atti “altruistici” veri (perché qualche atteso vantaggio psicologico può esservi sempre).

La natura altruista di un’azione dipende esclusivamente dalla mente dell’agente. Considerare un atto “altruistico” è in effetti un “processo alle intenzioni”[6]. “Altruistico” è una nozione soggettiva relativa alle rappresentazioni mentali (in specie motivazionali) sottostanti all’atto. Non è – tra agenti cognitivi – una nozione oggettiva e comportamentale. Non è sufficiente che una condotta di X sia per lui costosa e a beneficio di Y; e neppure che sia funzionalmente o intenzionalmente a beneficio di Y. Si ascrive al soggetto che agisca “motivato” dal bene dell’altro e non da eventuali vantaggi previsti (Castelfranchi 2011). Non basta sapere che si attiva un’area che ha a che fare con le emozioni (magari pro-sociali) o con il timore, o che si attivano aree relative alla “previsione”, o che vi è una certa sostanza che attiva una certa disposizione.

La Psicologia dal canto suo potrà certo continuare con i suoi “modelli” di information-processing, di fasi, operazioni e loro elaborati, ma dovrà sempre più supportare o rapportare i suoi modelli a riscontri e implementazioni somatiche (neuro in specie); perché è chiaro che “un modello psicologico che non trovi riscontro, implementabilità, localizzazione processuale nel cervello è semplicemente falso, sbagliato[7]. E quindi un modello psicologico che non cerchi possibili riscontri sarà visto con pregiudizio e screditato.

 

Alcune assunzioni arbitrarie sulla relazione mente-cervello-condotta

La discussione attuale sulla relazione tra processi psicologici e il loro substrato neuro-chimico spesso rivela alcuni assunti piuttosto discutibili, specie in ambito psichiatrico. Per esempio, è molto ragionevole l’ipotesi che le psicoterapie e in genere gli interventi psicologici e di sostegno possano avere impatto sulla regolazione cerebrale, a livello biologico; tuttavia questa validissima tesi (accompagnata da prime evidenze biochimiche e neuro) non va identificata con una tesi più radicale che abbiamo bisogno di esplicitare ancorché sia per molti versi “ovvia”.

Le rappresentazioni mentali e i processi psichici di per sé sono “nel” cervello (e dove se no?) e sono processi “del” cervello. Ogni loro costruzione/acquisizione, ogni loro funzionamento, ogni loro trasformazione è un cambiamento di processi nervosi in cui la mente si implementa e materialmente consiste[8].
Ma sapere questo non significa non mantenere uno spirito fortemente critico:
– contro le frequenti (e prevedibilmente crescenti) posizioni di riduzionismo biologico (genetico, neuro e bio-chimico) che hanno un grave impatto sulla opinione pubblica;
– su come una gran parte della Psichiatria adotti in teoria e in pratica una scorciatoia bio-farmacologica, molto problematica sul piano scientifico, sociale ed etico/politico.
Soprattutto vi è un non sequitur tra l’idea (ovvia) che il processo psicopatologico/disfunzionale (come per altro quello “sano” o “normale”) sia un processo cerebrale e la tipica, erronea, conclusione che:

  1. quindi il problema di origine, la causa, deve essere un “danno” cerebrale, una “disfunzione” dei meccanismi nervosi e biochimici di base: la “malattia” è cerebrale non mentale e comportamentale; dato che la cura cambia il cervello;
  2. l’idea che quindi (anche indipendentemente da (i)) l’intervento deve essere direttamente sul cervello e il suo funzionamento; di tipo bio-chimico.

Apprendere è modificare il cervello; ri-apprendere è rimodificare il cervello. Ci può essere stato (per una serie di fattori concorrenti: interni ed esterni, esperienziali e relazionali) un apprendimento disfunzionale (rispetto alla interazione sociale e le sue aspettative; e per i vissuti e la realizzazione della persona) e si tratta – mediante esperienze (non solo emotive) ed elaborazioni mentali – di ristrutturare gli assetti, rappresentazioni, e processi appresi.

Ogni e qualsiasi cambiamento della condotta è/implica un cambiamento della mente; ogni e qualsiasi cambiamento della mente è/implica un cambiamento del cervello. Il nostro cervello è stato “scritto” dalla nostra condotta; e deve/può essere riscritto. Nell’intervento terapeutico o rieducativo si tratta di mantenere (anche) questa via e questa visione, e un nesso non unidirezionale bensì dialettico. Per cambiare il nostro cervello non ci serve di agire “direttamente” su di esso! Come per produrre acqua non abbiamo bisogno (ed è persino peggio) di unire idrogeno e ossigeno; o per cambiare la regolazione dei geni non necessariamente manipoliamo i geni (epigenetica).

 

Incompletezza della rappresentazione mentale e neurale dei fenomeni psichici e comportamentali

La “mente” non è certo indipendente dal cervello, e in generale da un supporto materiale per information processing. “Mente” è ciò che il cervello fa, ma non a un micro-livello; al livello delle sue macro-funzioni e oggetti complessi (“rappresentazioni”). E tuttavia “mente” non è solo ciò che si svolge nel cervello. Non solo perché potremmo avere menti artificiali, embodied in altre “macchine” o supporti fisico-informazionali (anche a livello distribuito e di interazione sociale)[9]. Bensì perché “mente” è anche un costrutto della intentional stance, una attribuzione di stati e processi causali retrostanti (cause prossimali), ascritti per spiegare, predire, e cambiare le condotte. La mente è anche un “as if”, un “costrutto istituzionale” fondamentale per l’interazione e regolazione umana, persino indipendentemente dai reali contenuti mentali (Castelfranchi 2013). Noi ascriviamo certi contenuti e agiamo di conseguenza: “come se” ci fossero materialmente, e così gli diamo esistenza ed effetto reale. È questo che rende dei pezzi di carta “denaro”: agire come se. Postulare conoscenze, consapevolezza, motivazioni, decisioni e libere scelte è parte dello stesso “gioco” sociale. Dobbiamo agire come se il “vestito” mentale dell’Imperatore esistesse, e così crearlo, renderlo effettivo ed efficace.

Noi dobbiamo infatti interpretare i nostri ruoli e giochi simbolici “come se” avessimo quei contenuti mentali. È questa convenzione sociale e mutua assunzione che fa funzionare le interazioni e ci consente di far funzionare “il gioco che stiamo giocando” (Garfinkel). Dobbiamo “mettere in scena” per “segnalare” le giuste menti. “In sostanza noi cooperiamo in questa recita indossando e dovendo indossare l’appropriata mente non solo maschere: la ‘persona’ diventa persona. Semplicemente guardando la tua maschera o costume io “conosco” la tua mente; sono intitolato e anzi richiesto di ‘assumere’ che tu ‘assumi’ p e q, e che ‘vuoi’ r, e credi che io creda, ecc. Sono supposto interagire con te su questa base e interpretare il mio ruolo” (Castelfranchi, in stampa).
È corretto vedere queste credenze, scopi, rappresentazioni mentali ascritte come oggetti “istituzionali”, istituzioni, con i loro effetti convenzionali; così come già gli scripts, i ruoli, ecc. hanno carattere istituzionale.
Parliamo dunque di “oggetti” della Psicologia che sono fuori del cervello.

 

I mediatori cognitivi dei fenomeni sociali complessi

Non tutta la realtà psichica è nel soma e in particolare nel cervello, e neppure nella mente: cioè pienamente compresa e intesa dai suoi attori. Per questo noi introducemmo il concetto di “mediatori”, palafitte mentali dei fenomeni behaviorali e sociali; per negare che vi sia piena rappresentazione/comprensione (e tantomeno consapevolezza e coscienza) di essi. Cosa – per esempio – ci deve essere nella mia mente perché le norme sociali possano gravare su di me e regolare la mia condotta? Che oggetti mentali devo costruire per questo e come impattano sulle mie decisioni e azioni? (Conte e Castelfranchi 2006).

Noi non capiamo e intendiamo pienamente i “ruoli” che sosteniamo e svolgiamo (genitore, pedone, cittadino, consumatore, …) cioè gli effetti e funzioni che – ben al di là del nostro intendere – quel ruolo è fatto per svolgere.

Noi non partecipiamo alla (ri)produzione e costruzione di fenomeni e processi macro-sociali cui diamo luogo con le nostre condotte perché ne comprendiamo la dinamica, l’esito e la funzione. Noi capiamo di ciò non molto di più di quanto le formiche capiscano il senso e l’organizzazione del loro formicaio. Non capiamo i meccanismi economici (per esempio dinamiche e funzioni del prezzo, o del denaro, o della concorrenza, …) o politici o culturali di cui siamo parte e che costruiamo: non è il cervello che li controlla e rappresenta, è (in parte) una mano invisibile o dei poteri sociali complessi fuori del controllo degli individui.
Inoltre, sia a livello psicologico-comportamentale individuale, che sociale, che collettivo/emergente ci sono fenomeni psicologici fondamentali che hanno nella mente (e quindi nel cervello) solo dei supporti necessari per costruire quei fenomeni con le nostre credenze e condotte.

Tre esempi:

  • Un costrutto cruciale per l’individuo (e la sua stessa costituzione come individuo e agente) è la rappresentazione di sé; ma questa è una struttura in parte emergente, funzionale, dinamica: fatta di componenti rappresentazionali. È la sua funzione che la definisce, e ciò a cui serve; non la sua struttura (cartografabile nel cervello). Quella rappresentazione nel mio cervello costituisce/funziona come il mio Sé, se e quando è usata per, per, per… e in determinate circostanze interazionali e rappresentazionali. Oltre al fatto ovvio che il mio Sé, la rappresentazione di me è anche esternalizzata e stigmergica: nei miei atti, nei miei oggetti (auto, scrivania, libri, …), nelle mie relazioni, ecc. È costruita interazionalmente e narrativamente. Anche per questo il social network è un rivoluzione della costruzione della Identità personale, sua rappresentazione e struttura: il Sé è un “ritratto di noi” interno ed esterno, materiale e relazionale.
  • Analogamente le scienze del comportamento (inclusa la Psicologia) devono studiare fenomeni come l’“opinione pubblica”, o l’autorevolezza di Tizio. Ma l’opinione pubblica non sta nei cervelli degli individui, ne è il frutto, non la sommatoria delle singole opinioni. È fenomeno collettivo, autorganizzantesi, emergente e per giunta dovuto a propagazioni e feedback topdown (“immergenza”: effetto del macrofenomeno sulle menti individuali in base a ciò che l’individuo percepisce o crede del macro-fenomeno). Non solo non è una banale somma di contenuti mentali, ma implica anche una selezione es.: X crede di Z che sia di Padova o che sia un po’ grasso o che sua moglie sia un’infermiera. È scritto nel suo cervello a proposito di Z, ma: ha a che fare ciò con la autorevolezza di Z? O con l’opinione pubblica su Z? È pertinente-non pertinente, rilevante-non rilevante? E non vi sono su ciò piuttosto regole e convenzioni e copioni culturali? Nonché essa comporta una notevole incoerenza e disorganizzazione; è basata sul “senso comune” stupendamente definito da Gramsci: “una convinzione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle masse di cui esso è filosofia”.
  • Ci può essere uno stato di connessioni e attivazioni neurali che definisca, costituisca la “cortesia” del soggetto? Il suo pensiero o atto cortese verso un altro/gli altri? Al più vi può essere la configurazione neurale di un atto o atteggiamento che X vede o intende come “cortese”, il suo essere “soggettivamente” cortese. Le sue credenze, sentire, e intenzioni. Ma la sua “cortesia” è un riconoscimento e costruzione sociale, un essere conforme a determinate convenzioni e aspettative, non la sua intenzione o credenza di. Il suo “oggettivo” (convenzionale-relazionale) essere cortese non si riduce e forse neppure richiede la sua “soggettiva” cortesia: lo stato mentale/neurale di sentirsi e volersi cortesi.

Può e deve la Psicologia occuparsi della teoria complessiva di questi fenomeni che comportano fondamenti e mediatori mentali (in prospettiva neurali) ma anche aspetti relazionali, normativi, ed emergenti? O questa non è scienza, non è materiale; è metafisica, roba da lasciare ai filosofi?
Questa posizione pseudomaterialista e riduzionista (di mero comodo accademico) avrà una sua parziale vittoria e una sua parabola.

 

Neuro e Psico: per una scienza dei “meccanismi”

Come abbiamo detto, per spiegare un dato comportamento dobbiamo identificare le sue “cause prossimali”, processi sottostanti, che tuttavia non sono riducibili ai micro-processi neuro, ma sono macro-“funzionali” e “rappresentazionali”.
Serve un atteggiamento cooperativo e di scambio, e i modelli psicologici andranno sistematicamente riaggiustati e rivisti sulla base delle evidenze neuro, non solo di quelle sperimentali o computazionali. A mio avviso i modelli di “processing” con loro “operazioni”, “funzioni”, prodotti di input e output non solo possono ma devono restare; sarebbe un grave errore se la psicologia si riducesse a mere correlazioni statistiche tra variabili, e non fosse più una teoria dei “meccanismi” e “processi” retrostanti che “producono” detta condotta e dette correlazioni; o che i “meccanismi” esplicativi fossero solo e direttamente neuro.
E serve una visione stratificata della realtà, di diversi livelli di organizzazione emergenti l’uno dall’altro (dal micro al macro) e feedbackanti dal macro al micro.

 

La mente fuori dal cervello

Un problema inquietante è quello del libero arbitrio: vi è libero arbitrio nel nostro cervello e sue computazioni? E se non vi è nel cervello vi è nella nostra mente (almeno soggettiva, fenomenica), e comunque nella nostra condotta? La risposta è sì. Il libero arbitrio è una fondamentale postulazione culturale sulle nostre menti, una istituzione con i suoi effetti “count as” e convenzionali, ed è utile, effettivo, ed efficace, indipendentemente da una “libertà” nelle attivazioni, connessioni, e processamenti cerebrali. Il libero arbitrio esiste e opera, ma forse non nel cervello (Castelfranchi, in stampa).

 

Solo leggi, statistiche, correlazioni e probabilità?

Concludiamo con un interrogativo sul nostro futuro prossimo, guidati dal pessimismo della ragione ma anche dall’ottimismo della volontà.
Vincerà l’approccio alle condotte e dinamiche sociali analitico e “cognitivamente mediato”, e basato su “meccanismi sottostanti” e loro modellistica (anche computazionale)?
Non è affatto sicuro: noi ci aspettiamo una trionfale scorciatoia di statistiche, l’impressionante potere dei Big Data con le loro previsioni, e un approccio tutto basato su probabilità e correlazioni. Una tendenza già molto forte. Il titolo del recente libro di Mayer-Schonberger & Cikier è Big Data: A Revolution That Will Transform How We live, Work, and Think e io credo che essi abbiamo decisamente ragione. Tuttavia per me tale rivoluzione sarà conoscitivamente insufficiente e persino deviante se semplicemente aumenterà le nostre capacità “previsionali”, non fondandole su una più avanzata comprensione teorica di meccanismi e processi sottostanti la società e la cognizione.

Io temo la realistica profezia di Anderson (2008): “The End of Theory: The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete”; profezia che comincia a essere appunto sui Big Data e loro megacomputazione! Anche se la mia preoccupazione è più sul fine e frame della scienza che non sul metodo (vedi anche Harford 2014). Noi stiamo assistendo a una crescente tendenza a predire senza capire, cioè senza modellare le cause prossimali e di livello sottostante (Castelfranchi 2014).

 

Bibliografia

Anderson C., “The End of Theory: The Data Deluge Makes the Scientific Method Obsolete”, Wired Magazine (Science: Discoveries), June 2008, 23: www.wired.com/science/discoveries/magazine/16-07/pb_theory.
Castelfranchi C., “È possibile una mente altruista?”, in: Boca S., Scaffidi Abbate C. (a cura di), Altruismo e comportamento prosociale. Temi e prospettive a confronto, Franco Angeli, Milano, 2011.
Castelfranchi C., “For a science of layered mechanisms: beyond laws, statistics, and correlations”, Frontiers in Psychology, 2014, p. 536. Numero special su “What levels of explanation in the behavioural sciences?”, G. Boccignone & R. Cordeschi (eds.).
Castelfranchi C., “Minds as Social Institutions”, Phenomenology and the Cognitive Sciences, 2013, 12, p. 4.
Castelfranchi C. (in stampa), “NeuroNorme: per un approccio non riduzionista. Cosa cercare e non cercare nel cervello”, in Diritto e Neuroscienze, saggi in onore di Enrico Pattaro (a cura di Carla Faralli).
Clark A., Chalmers D., “The Extended Mind”, Analysis, 1999, 58(1), pp. 10-23.
Conte R., Castelfranchi C., “The Mental Path of Norms”, Ratio Juris, dicembre 2006, 19, 4, pp. 501-517.
Harford T., “Big data: are we making a big mistake?”, www.ft.com/cms/s/2/21a6e7d8-b479-11e3-a09a-00144feabdc0.html#axzz2xfk5fPiX, 2014.
Hutchins E., Cognition in the Wild, MIT Press, MA, 1995.
Mayer-Schonberger V., Cikier K., Big Data: A Revolution That Will Transform How We live, Work, and Think, Eamon Dolan/Houghton Mifflin Harcourt, 2013.
Miceli M., Castelfranchi C., Expectancy and Emotion, Oxford Univ. Press, 2014.
Noë A., Out of the Head. Why you are not your brain, MIT Press, Cambridge (Mass), 2009.
Verschure P., Pennartz Cyriel M., Pezzulo G., “The why, what, where, when and how of goal-directed choice: neuronal and computational principles”, Phil. Trans. R. Soc. B., 369, 2014 20130483, pubblicato il 29 settembre 2014.

 

Note

[1] Anche la scienza è un meccanismo/istituzione fatta di mercato, potere, immagine, mode, congreghe, …
[2] “Cognitivisti” sviluppati: capaci di incorporare le varianti situated, ecological, embodied, distributed, … che non sono paradigmi “alternativi” al cognitivismo ma sue integrazioni.
[3] Vedi anche Castelfranchi (2014), lavoro più ampio e argomentato in direzione di una teoria della necessità di “modelli dei meccanismi” e dei processi sottostanti, con l’idea che per avere “spiegazioni scientifiche” non sono sufficienti leggi, correlazioni, previsioni probabilistiche.
[4] Questo è il principale motivo per cui una decisiva rivoluzione nelle scienze comportamentali è e sarà la modellazione e sperimentazione computazionale (simulazione e robotica): un approccio “operazionale” in modo radicale. Non vi sono alternative a questo metodo/ modellistica, specialmente perché dobbiamo modellare i processi/dinamiche a un dato micro-livello e le dinamiche a un macro-livello, ma anche e nello stesso tempo i processi e feedback emergenti (bottom-up) e quelli immergenti (top-down), e come il tutto si regge.
[5] Trad.: “Le dinamiche fisiche nel cervello che implementano le funzioni e i meccanismi fisiologici (fiducia, aspettative, fattibilità, inferenze), postulate nei processi decisionali”. Un altro esempio eccellente è rappresentato da Verschure et al. 2014.
[6] Beneficium non in eo quod fit aut datur consistit, sed in ipso dantis aut facientis animo: “Far del bene non consiste in ciò che si fa o si dà, ma nell’intenzione con cui si fa o si dona (Seneca, De Beneficiis, Libro I, 6).
[7] Si considerino tuttavia altre basi delle entità e processi mentali, in termini di esternalizzazione e di cognizione distribuita; e in termini anche più radicali, di convenzioni e costrutti “istituzionali” che si materializzano nelle nostre assunzioni e azioni conseguenti.
[8] Si rammenti tuttavia quanto sottolineato nella nota precedente.
[9]Distributed cognition”, “mente estesa”, esterna alla scatola cranica, distribuita in supporti esterni o sociali (si veda, per esempio, Hutchins 1995; Clark e Chalmers 1999; Noë 2009).

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.21/22 – “Mentecorpo. Il cervello non è una macchina