Brexit: quali scenari possibili per l’agroalimentare “Made in Italy”?

Con il referendum Brexit che ha sancito la vittoria del “leave” i rapporti commerciali tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna sono destinati a cambiare e, per quanto riguarda il nostro paese, c’è particolare attenzione in merito ai cambiamenti che potranno riguardare il nostro settore agroalimentare.

 

Come funziona il Brexit? – L’articolo 50 del trattato sull’Unione Europea prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un paese dall’UE. Il paese dell’Unione Europea che decide di recedere deve notificare tale intenzione al Consiglio europeo, il quale presenta i suoi orientamenti per la conclusione di un accordo che dovrà definire le modalità di recesso di tale paese. Tale accordo, una volta concluso a nome dell’Unione europea dal Consiglio stesso, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo, fa sì che i trattati europei cessino di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Questo comporterà la rinegoziazione degli accordi commerciali con l’Unione Europea, in uno scenario che si potrà compiere solo nei prossimi anni.

Ipoteticamente uno scenario nel quale potremmo trovarci è quello di un ripristino delle barriere tariffarie in entrata e in uscita da parte del Regno Unito verso quelli che una volta erano i partner commerciali del mercato. Le imprese italiane, in futuro, si potrebbero trovare ad affrontare dazi sul mercato britannico, in linea con quanto succede oggi agli esportatori giapponesi o statunitensi; eventualità questa che si tradurrebbe in prezzi meno competitivi o in una riduzione dei margini per le imprese esportatrici. Ovviamente questa è di una prospettiva tutt’altro che scontata.

 

L’agroalimentare italiano in UK – Ad oggi, il Regno Unito rappresenta per l’agroalimentare un mercato da circa 3,2 miliardi di euro, così come descritto da Ismea Servizi che, in un suo report ha descritto come in tale settore ci sia stata una crescita di circa il 9% nel 2015. Secondo i dati di Federalimentare, l’export del cibo “Made in Italy” dal 2007 al 2015 è cresciuto del 55,6%, ed anche nel primo trimestre del 2016, rispetto allo stesso periodo del 2015, l’export è continuato a crescere del +3,17%.
Il Regno Unito rappresenta per il nostro paese il quarto mercato di sbocco dopo Germania, Francia, Stati Uniti per l’export agroalimentare italiano. L’Italia è posizionata, inoltre, all’ottavo posto tra i clienti del mercato britannico, con una spesa di oltre 650 milioni di euro.

Nel corso del 2015 l’interscambio agroalimentare col Regno Unito, ha portato per l’Italia un attivo di 2,6 miliardi, con un +88% rispetto al 2014, le cui principali voci di export nel settore sono stati in valore nell’ordine il 23 % del totale per Vino e Mosti; il 22% per l’Ortofrutta fresca e trasformata; il 18% per Cereali, Riso e derivato; il 7% per Animali e Carni il 7% e il 6% per i Lattiero-Caseari. Interessante è il mercato del vino italiano. Secondo l’Istat il nostro export è stato di 657 milioni di euro nel 2014 e di 745 milioni di euro nel 2015, rispettivamente 13% e 14% del totale dell’export italiano nel settore del food&beverage nel Regno Unito. Lo spumante italiano ha contribuito per 272 milioni di euro, seguito dai vini a denominazione di qualità Igp per 199 milioni di euro e quelli Dop per 164 milioni.

 L’Istat fa notare come il rapporto sterlina – euro abbia fatto sì che il nostro vino avesse un prezzo medio su quel mercato significativamente inferiore rispetto a quello che il prodotto nazionale spunta su quello mondiale; rispettivamente, nel 2015, al litro, €2,31 euro e €2,71.
In un mercato complesso come quello dell’agroalimentare non è facile comprendere cosa accadrà. Sempre Federalimentare nei giorni immediatamente successivi alla vittoria del “leave” ha sostenuto che sostiene la domanda dei prodotti agroalimentari italiani, grazie alla loro l’elevata qualità produttiva, potrebbe non subire ripercussioni negative, soprattutto, così come ha ricordato il Presidente Scordamaglia, per il peso che ad oggi il mercato britannico ha sull’export alimentare italiano che è del 9,7% del totale. Sulla stessa lunghezza d’onda, in un’analisi condotta per l’Ansa, ponendo l’accento sulla presenza preponderante sul mercato britannico dei nostri prodotti, si sono espresse, Coldiretti e l’Alleanza delle coop agroalimentari.

 

La svalutazione della sterlina: quali effetti? – Un’altra prospettiva da non sottovalutare per quanto riguarda il nostro export è l’effetto svalutazione della sterlina che potrebbe rendere i prodotti britannici più competitivi su mercati internazionali in zone dove risulta forte la presenza delle nostre imprese, come in Australia, Canada, Arabia Saudita e Stati Uniti. Tuttavia, anche se si realizzasse questo scenario, il nostro Paese godrebbe di un vantaggio non indifferente. La maggiore competitività delle merci inglesi, così come le eventuali maggiori difficoltà per il nostro export sull’isola, sarebbero comunque mitigate dalla distintività della produzione di origine italiana.
A conti fatti, l’export dell’agroalimentare italiano verso il mercato britannico, secondo le associazioni di categoria, non dovrebbe accusare flessioni in nessuno degli scenari ipotizzati.  A conferma, SACE, il gruppo assicurativo-finanziario, nelle settimane precedenti al voto, sia qualora avesse prevalso il “Remain”, sia che avesse vinto il “Leave”, aveva confermato la crescita prevista per il food and beverage “Made in Italy” del 7% nel 2016 e del 5,5% nel 2017.

Una lettura diversa rispetto a quella di Sace la dà Prometeia, società di consulenza e ricerca economica che prevede cali inferiori per settori come la meccanica, la farmaceutica e i mezzi di trasporto dovuti “alla forte specializzazione dell’offerta italiana” mentre invece: “applicando le tariffe medie di comparto ai flussi effettivi del 2015” le imprese dell’alimentare arriverebbero a perdere 450 milioni di euro, ovvero il 14% delle proprie vendite sul mercato.
Gli analisti sembrano non avere idee univoche sul tema. Ad oggi, i primi tre paesi da cui il Regno Unito importa maggiormente prodotti agroalimentari sono i Paesi Bassi, l’Irlanda e la Francia, con quote di mercato in valore che sono rispettivamente del 14%, del 10% e del 10%. Nel complesso, sul totale dell’import agroalimentare britannico, l’Italia ha una quota pari al 6% in valore e rispetto al 2010, le importazioni di prodotti alimentari dal Regno Unito sono aumentate del 36%, a fronte di un +41% di esportazioni di prodotti agroalimentari dall’Italia. Dati positivi per le imprese del nostro paese che la Brexit, ad oggi, non dovrebbe intaccare.