Choosing Wisely Italy: bisogna fare meglio

“Fare di più non significa fare meglio”. Il progetto di Choosing Wisely Italy (Scegliere con saggezza Italia) ha un nome che sintetizza bene lo spirito di un movimento nato negli Stati Uniti ma che oggi si sta espandendo in molti Paesi del mondo. In medicina, sostengono gli appartenenti al movimento, fare di più non significa fare meglio. Anzi, a volte significa fare peggio, sia all’economia del Paese che alla salute dei cittadini.

L’origine di tutto si fa risalire al 2007 quando negli Stati Uniti uscì il libro “Overtreated – Why too much Medicine is Making us Sicker and Poorer” (Ipertrattati. Perché troppa medicina ci sta rendendo più malati e più poveri) della giornalista Shannon Brownlee. L’autrice sosteneva che gli Usa spendevano da un quinto a un terzo del budget destinato alla salute “per cure che non migliorano la nostra salute”. Il tema era forte, ma rimase per un po’ a covare sotto la cenere. Tre anni dopo, nel  2010, Howard Brody, medico, riprese l’argomento pubblicando sulla prestigiosa rivista medica New England Journal of Medicine un articolo intitolato “Medicine’s Ethical Responsibility for Health Care Reform — The Top Five List” (Brody H. Medicine’s ethical responsibility for health care reform: the Top Five list. N Engl J Med. 2010;362(4):283-285) in cui si chiedeva alle società specialistiche americane di assumersi la responsabilità etica di rendere sostenibile il sistema sanitario identificando cinque tra test e trattamenti che erano usati in eccesso, risultavano tra i più costosi e non fornivano un beneficio significativo al paziente esponendolo anzi a rischi. Brody riportava come esempi di pratiche da ridurre la chirurgia artroscopica per l’osteoartrosi del ginocchio e molte modalità di utilizzo della tomografia computerizzata che, oltre a far crescere i costi, espongono i pazienti ai rischi delle radiazioni.

Passano ancora due anni e finalmente nel 2012 nasce negli Stati Uniti il movimento Choosing wisely  (http://www.choosingwisely.org/) lanciato inizialmente dalla ABIM Foundation, la fondazione dei medici internisti americani insieme a Consumer Reports, associazione di consumatori. L’intento era quello di avviare un dialogo tra medici e pazienti per evitare test, trattamenti e procedure mediche non necessarie, inappropriate o che risultano addirittura dannose. Nove società scientifiche specialistiche aderiscono fin dall’inizio al progetto e ognuna di esse stila una lista di 5  test, trattamenti o servizi comunemente utilizzati nella propria specialità e il cui impiego avrebbe dovuto  essere messo in discussione da pazienti e clinici. Nel complesso si individuano così 45 pratiche ad alto  rischio di inappropriatezza. Nel 2013 seguono altre 18 liste presentate da altrettante società scientifiche degli Stati Uniti che si aggregano all’iniziativa.

Sempre nel 2013 la rivista medica inglese British Medical Journal risponde all’appello lanciando una campagna dal titolo “Too much medicine”, troppa medicina. L’eccesso di diagnosi e le cure non necessarie costituiscono una vera e propria minaccia per la salute dei cittadini, è la tesi della campagna: «Ci sono sempre più prove del fatto che molte persone sono sottoposte a un eccesso di diagnosi e di trattamenti in diversi casi, ad esempio per il cancro della prostata e per quello della tiroide, per l’asma e per le malattie renali».

Sostenuta anche dal fatto che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che una percentuale della spesa sanitaria compresa tra il 20% e il 40% rappresenti uno spreco causato da  un utilizzo inefficiente delle risorse, Choosing Wisely ha cominciato a diffondersi anche in altri Paesi del mondo, compresa l’Italia. Il progetto “Fare di più non significa fare meglio. Choosing Wisely Italy” è stato lanciato alla fine del 2012 da  Slow Medicine, la rete di professionisti e cittadini che si riconoscono in una medicina “sobria, rispettosa e giusta”, insieme a diversi partner: Altroconsumo, FNOMCeO, IPASVI, Partecipasalute, l’istituto Change di Torino, la Federazione per il Sociale e la Sanità della provincia autonoma di Bolzano. Oggi aderiscono a questo progetto più di 30 società scientifiche mediche, oltre a società infermieristiche e di fisioterapisti. E proprio in Italia, a Roma, si è svolto a maggio scorso il terzo meeting di Choosing Wisely a cui hanno partecipato i rappresentanti di sedici Paesi e nel quale si è deciso di dotare il movimento di una struttura internazionale.

Quali sono gli esami e i trattamenti individuati?  Consumer Reports ne individua alcuni: le procedure di intervento sulle coronarie per milioni di pazienti per i quali è provato che la terapia farmacologica è invece la scelta migliore. Il regime farmacologico a lungo termine a cui vengono sottoposte persone che hanno un basso rischio di frattura dell’anca o di infarto o di ictus. Il test del PSA (antigene prostatico specifico) utilizzato per diagnosticare il cancro alla prostata nello stadio iniziale, a dispetto del fatto che gli studi devono ancora provare che il trattamento precoce sia meglio di nessun trattamento e a dispetto del fatto che un eccesso di diagnosi porta con sé interventi inutili e spesso affiancati da effetti collaterali pesanti. Ma ne sono stati individuati molti altri. Ai primi posti ad esempio c’è l’uso eccessivo delle tecniche di imaging. Già nel 2012 la prima lista stilata da Choosing Wisely indicava tra i test usati in eccesso quelli di imaging per cefalea in pazienti senza fattori di rischio; la radiografia del torace pre-operatoria di routine in pazienti senza sintomi cardiopolmonari; i test di imaging in pazienti con lombalgia in assenza di segni/sintomi di allarme; la densitometria ossea (metodica DEXA) per sospetta osteoporosi in donne di età inferiore a 65 anni e in uomini  di età inferiore a 70 anni senza fattori di rischio;  TC (tomografia computerizzata) o RM (risonanza magnetica) cerebrale dopo sincope semplice senza anomalie neurologiche; PET (tomografia a emissione di positroni) TC o scintigrafia ossea per la stadiazione del carcinoma prostatico di recente identificazione a basso  rischio di metastasi; PET, TC o scintigrafia ossea per la stadiazione del carcinoma della mammella di recente identificazione a basso  rischio di metastasi.  L’Italia ha un primato in questo senso: il nostro Paese ha un rapporto tra numero di apparecchiature TC e RM e numero di abitanti molto al di sopra della media dei Paesi OCSE. E uno studio del 2011 (Appropriateness: analysis of outpatient radiology requests. M. Cristofaro et al Radiol med (2011) 116:000–000 DOI  10.1007/s11547-011-0725-2) mostra che solo il 56% delle prestazioni radiologiche ambulatoriali sono appropriate, ovvero non potevano essere evitate senza recare danno al paziente. Non è il nostro unico primato in questo senso: anche il parto cesareo è tra le pratiche più eseguite nel nostro Paese. Abbiamo infatti il numero di parti cesarei che è uno dei più alti del mondo, naturalmente concentrata più nelle strutture private che in quelle pubbliche.

Perché si continua a praticare la medicina in questo modo? Leggiamo dalla pagina dedicata da Slow Medicine al progetto italiano: «Si tratta di esami e trattamenti non supportati da prove di efficacia, che continuano ad essere prescritti ed effettuati  per molteplici ragioni: per abitudine, per soddisfare pressanti richieste dei pazienti, per timore di sequele medico  legali, perché spiegare al paziente che non sono necessari richiede più tempo, per interessi economici, perché nelle  organizzazioni sanitarie viene premiata la quantità delle prestazioni più della loro qualità e appropriatezza, per  dimostrare al paziente di avere una vasta cultura scientifica o per applicare in modo acritico il concetto del “fare tutto  il possibile”».

Le motivazioni, come si vede, sono complesse. A parte l’ovvia pressione esercitata di chi guadagna economicamente da un uso più diffuso di farmaci e test, c’è da combattere con le abitudini e soprattutto con l’idea, inculcata nella testa degli stessi pazienti, per cui è meglio fare di più.  In sostanza, e qui viene la parte più difficile, dobbiamo pensare a un approccio anche di tipo culturale, un dialogo attraverso il quale i pazienti capiscano che non è vero che se ho mal di schiena devo per forza sottopormi alla risonanza magnetica  e che non è vero che l’ortopedico più bravo è quello che mi prescrive più test di imaging. Un dialogo attraverso cui si  possa prendere in considerazione il fatto che i tagli non sono sempre un male per la nostra salute, ma a volte possono addirittura avere come risultato un guadagno di salute. E che tutto dipende da come si praticano.