L’algoritmo a Piazza Plebiscito: più futuro ma sempre un po’ remoto.

Futuro remoto è un evento che scandisce da sempre il dibattito sull’innovazione per una generazione che ha vissuto molte vite a Bagnoli. La principale di queste vite, per coincidenza anagrafica con la stagione dell’emancipazione, ma anche per passione e coinvolgimento civile, fu quella che si snodò attorno alla mitologica fabbrica di cui impareggiabilmente Ermanno Rea raccontò la dismissione.

Prima ancora che volgesse al tramonto quella epica stagione politica, Citta della Scienza aprì una straordinaria e profetica finestra sul mondo che ci attendeva, di cui poi, Futuro Remoto fu la periodica e implacabile occasione di aggiornamento annuale.
Dico questo per denunciarmi come uno dei discepoli di quella storia sull’arenile.
Una storia intessuta da rapporti personali e di comunanza d’intenti, ma anche di sonore e sanguigne divisioni, che, credo, cementano, piuttosto che separare una comunità.
Mi gioco questo mio personale patrimonio di memorie ed affetti, per proporre, con il pretesto di un mio dissenso, una discussione in merito al modo, allo stile e ai contenuti del proselitismo digitale che da tempo vede impegnati i protagonisti dell’appuntamento autunnale di Piazza Plebiscito.

In sostanza anticipo brutalmente il cuore della questione che vorrei porre in discussione: è ancora possibile oggi riferirsi e trattare la rete come una dimensione pionieristica da promuovere tout court, e da presentare con un eden di neutralità e positività? E più precisamente: è plausibile e lecito promuovere formazione al codice adottando formule , contenuti e immaginari tutti mutuati dai grandi monopolisti degli algoritmi? So bene che le mie domande rischiano di bruciare quel patrimonio di relazioni personali che citavo all’inizio. Per questo sono costretto ad usare l’attenzione che mi si vorrà ancora prestare per argomentare la mia posizione e soprattutto per renderla utile ad un eventuale sviluppo.

Gli amici di Città della Scienza sono troppo esperti e colti per non cogliere nei miei quesiti echi di antiche disquisizioni e polemiche che attraversarono il dibattito nel movimento del lavoro. In sintesi  il nodo che in qualche modo pongo riguarda la neutralità della scienza e la singolarità, allora si parlava di discontinuità, delle nuove tecnologie digitali.
Io credo, ultimo della fila di una schiera di ben più illustri pensatori, che siamo ormai in una fase in cui si è strutturato  e ormai consolidato un nuovo sistema economico industriale, dove l’attività manifatturiera, che pure permane, è ormai del tutto periferica rispetto alla produzione di ricchezza e di senso sociale rispetto alla centralità dei processi di automatizzazione dei comportamenti e dei pensieri, indotti dagli algoritmi. Siamo cioè non lontano da un passaggio equivalente a quello che all’inizio del 900 vide la fabbrica formarsi come motore sociale e alcuni modelli proprietari e gestionali, caratterizzati dal fordismo e dal taylorismo, assumerne la guida.

Sarebbe stato plausibile allora parlare, come pure qualcuno tentò di fare, dell’industrializzazione  di massa come di un fenomeno scientifico neutro che di per sé  civilizzava la società? Certo che no. E grazie a Dio non accadde per una cultura diversa che prevalse nel movimento operaio.
Sarebbe stato plausibile in anni successivi vedere manifestazioni culturali sul progresso e l’innovazione sponsorizzate dalla Fiat o dalla Ford? Sarebbe stati accettabile organizzare alfabetizzazione scientifica e formazione culturale sulla base di testi e di contenuti mutuati dalle grandi industrie del tempo.

Faccio domande che sono di per se paradossali prima ancora che provocatorie. Eppure questo sta accadendo. Quando leggiamo, e insieme critichiamo, che il governo italiano affida ad un azionista del principale fornitore della P.A. di memorie e soprattutto di modelli cognitivi digitali la strategia della digitalizzazione della macchina pubblica cosa vogliamo denunciare? Quando ci colpisce il silenzio che accoglie la decisione del Ministero della Pubblica Istruzione di affidare l’alfabetizzazione al codice nelle scuole dell’obbligo alla Microsoft, ossia ad un monopolista estero per di più sostenitore degli approcci più inadeguatamente proprietari cosa vogliamo segnalare se non questo parallelo?

Ma tutto il mio ragionamento si basa su una premessa che in effetti non è scontata. Davvero la potenza di calcolo è un processo mentale che inevitabilmente condiziona e interferisce con la nostra autonomia mentale? Insomma gli algoritmi sono strumenti o linguaggi?
In una lettera  scritta nel 1910 i fratelli Wright, i padri del volo umano, riferendosi alla prospettiva del volo meccanico, affermano “che sempre l’abilità del pilota prevarrà sulle soluzioni della macchina”. Non era un’affermazione gratuita o retorica. Già allora, attorno ai primi prototipi di aereo, si stava discutendo  del livello di autonomia dell’uomo dalle macchine.  E l’aereo, se ci pensiamo, è forse l’ambiente dove questa autonomia è stata già del tutto cancellata, quasi inavvertitamente da parte nostra, con forme di automatizzazione che hanno sostituito radicalmente le abilità .”ci stiamo dimenticando come si fa a volare” commentava l’associazione dei Piloti americani nel 2011 all’indomani di un ennesimo incidente causato da un uso esasperato degli automatismi.

Questo è dunque il fenomeno concreto che abbiamo dinanzi: non una generica stagione di saperi diffusi e accessibili, che autorizzano la creatività di massa e l’auto impresa, ma una nuova del tutto sconosciuta marca di sostituzione delle attività discrezionali dell’uomo con soluzioni tecnologiche automatiche. Come fin dal 2000 Raja Parasunaman, uno dei massimi esperti mondiali del tema, ammoniva “l’automazione non si limita a rimpiazzare l’attività umana, ma la cambia, e spesso in modi non previsti ne voluti dai progettisti”.
Il Motore di questo processo socio tecnologico  non è una generica conoscenza. E’ un pensiero calcolante che elabora specificatamente soluzioni matematiche al fine di risolvere, automaticamente, ogni problema, con l’ambizione di qualificare come unica ed esclusiva ogni soluzione data. Questo è l’algoritmo.

Questo è quel sistema logico che ci guida quando parliamo in rete, quando  azioniamo sistemi di ricerca, quando attiviamo modelli organizzativi, quando introduciamo al digitale i giovani. In sostanza quando pensiamo.
Gli algoritmi  risolvono problemi perché adottano visioni e linguaggi che costringono, chi usufruisce delle soluzioni, ad adeguarsi ai pensieri . E chi elabora questi algoritmi, come spiegava  già negli anni 30 Vannevar Bush  “non è qualcuno che sa manipolare le cifre, anzi spesso non lo sa fare”. E’ principalmente una persona competente nell’uso della logica simbolica, su un piano elevato, e in particolare è una persona di giudizi intuitivi”. Di questo usufruiamo e a questo ci adattiamo quando usiamo gli algoritmi: logiche simboliche e giudizi intuitivi.
Il filosofo Umberto Galimberti nel suo tomo Psiche e Technè (Feltrinelli) scrive: “Il grande capovolgimento è dovuto al fatto che , superato un certo livello, la tecnica cessa di essere un mezzo nelle mani dell’uomo per divenire un apparato che include l’uomo come suo funzionario”.  A mio parere questo è il gorgo in cui ci troviamo oggi. La contendibilità della nostra autonomia da parte di una potenza di calcolo che rimane in poche mani e che si rende indispensabile.

Una conferma la troviamo nell’ultima soluzione che ci propone Spotify, il diffusissimo servizio di streaming musicali svedese che conta ormai circa 100 milioni di utenti di cui quasi la metà a pagamento, che permetta di profilare i nostri gusti futuri.
Il nuovo software – Release Radar ( http://www.zazoom.it/ultime/notizie/1452612/ ) – è in grado infatti non solo di campionare il nostro gradimento per canzoni e composizioni che sono già in distribuzione, permettendo cosi al service provider svedese di proporci le sue compilation personalizzate,  ma soprattutto di  anticipare l’evoluzione del nostro gusto,  di cogliere l’itinerario della nostra  futura maturazione .In sostanza  Release Radar arriva ad indovinare  cosa ci piacerà  nei prossimi mesi e perché. Si prefigura  in questo modo  il futuro consumo di composizioni che non sono state ancora realizzate.

Siamo ben oltre  il social marketing e il customer satisfaction.
Con questa soluzione digitale non  si organizza più la produzione, almeno nel campo musicale, in base alle richieste, ma si è in grado di pilotare la fase di creatività per produrre  solo quello che potrà incontrare  la scelta del consumatore. Ovviamente, in base alla disponibilità di questi dati straordinari  Spotify è in grado anche di interferire sulla formazione delle nostre categorie  musicali orientando proprio  l’itinerario della nostra sensibilità. Così, più che misurare  il gradimento del cliente, si arriva ormai a concorrere a formare, per ogni singolo utente, il  proprio bisogno di qualcosa di nuovo, l’individuale domanda di quello che non c’è.

La Musica è il  battistrada delle tecnologie digitali, il laboratorio privilegiato  degli strappi tecnologici.
Dai primi software di download, fino al mitico mp3, per arrivare oggi ai flussi di streaming in diretta, il mercato musicale  è stato per l’economia on line quello che la Formula 1 è per l’industria automobilistica.
Del resto già Gottfried Wilhelm von Leibniz,  il corrusco teorico delle monadi, che aprì la strada alla filosofia della scienza, ben 5 secoli fa sosteneva che la musica era “una pratica occulta dell’aritmetica, nella quale l’anima non sa di calcolare”.
Ed è proprio l’anima del cliente il vero obbiettivo della nuova economia digitale.
A fine agosto Tim Cook, il successore di Steve Jobs alla testa di Apple, ha rilasciato una lunga intervista al Washington Post ,che forse non sarà ricordata per l’aggressività dialettica dell’intervistatrice, ma  che ha permesso  al capo della Apple di spiegare come sarà proprio l’intelligenza artificiale e la capacità di leggere e guidare le intenzioni del consumatore la nuova frontiera del digitale (http://www.washingtonpost.com/sf/business/wp/2016/08/13/2016/08/13/tim-cook-the-interview-running-apple-is-sort-of-a-lonely-job/ ).

Qualcosa di più esplicito, ha scritto nella scorsa primavera Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, alla commissione commercio del Senato Americano che lo sollecitava sul cosi detto Algoritmo anti conservatori, accusato di discriminare contenuti e posizioni  del fronte  meno liberal americano. “non escludo qualche eccesso da parte dei nostri tecnici –  si difende Zuckerberg- impegnati nello sforzo comune per colmare il gap fra quello che oggi un algoritmo può fare e quello che dovrà fare” (http://www.zazoom.it/ultime/notizie/1452612/)

Quel gap è oggi il motore dell’economia globale, oltre che il buco nero su cui si sta consumando l’ultimo scampolo delle autonomie culturali e commerciali dei sistemi nazionali.
Infatti  vediamo che interi sistemi nazionali sono ormai diventati non solo mercato di consumo di intelligenze altrui, ma area di subalternità produttiva ed economica a linguaggi e comportamenti che rispondo ad altre logiche e culture. L’Europa è un triste esempio di questo declino.
Basta dare un occhio ai listini di Borsa per capire chi siano i titolo di testa e cosa stia oggi guidando la formazione del valore a livello internazionale e vedere chi sono i titoli di testa: Google, Facebook, Amazon,la stessa Spotify.
Imprese che accumulano capitalizzazioni senza precedenti calcolando  l’anima dei loro utenti, direbbe Leibniz.

Tutto questo potrebbe essere persino tollerabile se, a differenza di quello che immaginano i giornalisti come me, il digitale non serve, come spiega il genetista Craig Vender, a giocare con i social ma a riprogrammare la vita umana. A cosa si stanno dedicando oggi Google, Facebook, Amazon se non a investire sulla convergenza di intelligenze artificiali ed applicazioni genetiche?  Su cosa si stanno concentrando gli investimenti dei mercati dei venture capital se non su soluzioni  di brain technology,di algoritmmizzazioni del cervello? Insomma qui non si vuole fare la caricatura ad Orwell e ricominciare con  gli orrori del passato. Chi vi parla nella scolastica dicotomia fra apocalittici e integrati si iscrive fra gli ultras della seconda lista ritenendo che nulla, ma proprio nulla DEL PRESENTE SIA PEGGIO DEL PASSATO. Fra quello che considero bello del presente è una straordinaria opportunità per ogni individuo di costruire  processi di autoprogrammazione della propria vita riuscendo a negoziare ed a controllare il potere degli algoritmi altrui.

Per tutto questo credo che però non si possa più sgarrare. E’ finito il tempo della predicazione messianica della rete, del proselitismo digitale. La rete non è una dimensione omogenea, ma è un ambiente conflittuale dove grandi gruppi si stanno accaparrando risorse e saperi. Un paese, una città, una comunità deve ritagliarsi propri spazi negoziali, imponendo procedure, linguaggi, regole a chi invece vuole trasformare la rete in un nuovo Far West del denaro . La formazione è una di queste trincee. Gli algoritmi. Il software, le piattaforme non sono neutre, indifferenziate o indifferenti: sono poteri e culture che rispondono ad interessi specifici.  E’ il motivo per cui Amburgo ha deciso di vietare a Facebook di cumulare i dati di Whatsapp, o il governo indiano ha imposto a Facebook di non discriminare altri social.

Recentemente una comunità di imprenditori, operatori, scienziati e ricercatori ha lanciato un manifesto per l’algoritmo come spazio pubblico, esattamente come lo sono la scuola e la sanità.
I sistemi algoritmici devono, proprio per la loro incontenibile potenza e pervasività, essere riconosciuti di interesse pubblico. Devono essere uno vero spazio pubblico, come filosofi ed economisti nel secolo scorso hanno convenuto su istituti quali appunto scuole, ospedali, telecomunicazioni.
Non pensiamo di affidare esclusivamente alle istituzioni politiche e statuali questo ruolo normativo. Il carattere di tecnologie di libertà che è stato riconosciuto alle reti digitali è troppo delicato per permettere a congiunture politiche di premere sul loro funzionamento.

Riteniamo,  come accadde nel secolo scorso nel processo di  modernizzazione e civilizzazione delle relazioni di lavoro e di vita  sociale, che sia importante riuscire a sviluppare, con il diffondersi di mature consapevolezze critiche sui processi tecnologici,  una convergente azione di protagonismo negoziale  da parte di agenti sociali, quali associazioni di consumatori, di specifici utenti professionali, di enti quali università e centri di ricerca, principalmente dei territori e delle comunità locali, che sempre più assiduamente adottano modelli digitali per organizzare la propria attività, e le istituzioni che intervengono  per ratificare e stabilizzare regole e rivendicazioni  contrattuali.

Si tratterebbe di riprodurre su questo nuovo ambito di contrattazione e controllo esattamente quel fenomeno di molteplicità di ruoli sociali che all’inizio della rete guidò la sua gestione concreta mediante l’ICANN.
L’algoritmo come spazio pubblico, la trasparenza nei processi di automatizzazione delle attività discrezionali, la modificabilità e adattabilità di codici e software, sono oggi le condizioni perché la rete possa realmente confermare le promesse di promozione, liberazione e soddisfazione reale che sono alla base della sua diffusione e condivisione globale.
Su questo mi piacerebbe che ci fossero lezioni a Bagnoli ed a Piazza Plebiscito e non su temi che inevitabilmente ingolosiscono i direttori marketing dei giganti della Silicon Valley.