Entra in vigore il Paris Agreement sul clima

Oggi (4 novembre) entra ufficialmente in vigore il Paris Agreement, l’accordo sul clima approvato meno di un anno fa nella capitale francese, al termine della XXI sessione della conferenza ONU sui cambiamenti climatici (COP-21).  Il Paris Agreement, tra le altre cose, impegna i Paesi firmatari a contenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali” e “di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C” e di giungere progressivamente a un’economia globale a zero emissioni di carbonio, possibilmente nella seconda metà del secolo in corso.

Il Paris Agreement è potuto diventare esecutivo poiché, come recitano le regole della Convenzione ONU sul clima, sono passati trenta giorni da quando, dopo la ratifica da parte di Bolivia, Canada, Nepal, India, Malta, Francia, Germania, Ungheria, Slovacchia, Portogallo e Austria, e la stessa Unione Europea, è stata pienamente superata la doppia dei 55 Paesi responsabili complessivamente d’almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra ad aver depositato la loro ratifica sul tavolo delle Nazioni Unite.

L’accordo di Parigi ha richiesto meno di un anno per passare le sue soglie di ratifica. Un record in confronto agli altri accordi delle Nazioni Unite, incluso il Protocollo di Kyoto, che ha avuto una gestazione di 8 anni prima di entrare in vigore.

La svolta è avvenuta con l’annuncio simultaneo, lo scorso settembre, da parte di Cina e USA (rispettivamente primo e secondo emettitore mondiale di gas-serra, insieme responsabili del 39 percento delle emissioni globali) di aver ratificato il Paris Agreement e di aver recapitato sul tavolo di Ban Ki Moon, segretario generale dell’ONU, i propri Piani di riduzione delle emissioni di gas-serra. Le ratifiche delle due superpotenze hanno generato un impeto e un contagio positivo che hanno consentito di superare le doppia soglia 55/55. Oggi sono 97 i Paesi ad aver già depositato la loro ratifica alle Nazioni Unite (http://unfccc.int/paris_agreement/items/9485.php).

Era importante che l’Accordo entrasse in funzione prima della XXII sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione sui cambiamenti climatici (COP-22), in programma a Marrakesh dal 6 al 18 novembre, poiché in questo modo si potrà tenere in parallelo alla COP-22 il primo incontro delle nazioni che hanno ratificato l’Accordo di Parigi, il cosiddetto Meeting of the Parties. E, soprattutto, prima dell’insediamento del prossimo Presidente Usa, per scongiurare il rischio che Donald Trump, il candidato repubblicano alla presidenza, possa dare seguito alla promessa fatta in campagna elettorale di ritirare gli USA dall’accordo di Parigi qualora eletto. Adesso invece, con la ratifica dell’Amministrazione Obama e l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, un’uscita immediata degli USA sarà molto improbabile se non impossibile nei prossimi quattro anni.

È giusto quindi che oggi siano in molti a celebrare la nascita dell’Accordo concepito a Parigi lo scorso dicembre.  Dopo decenni di dispute internazionali sul cambiamento climatico, finalmente la comunità internazionale dà respiro a un impegno di medio-lungo termine per contrastare la crisi climatica.
Christiana Figueres, ex segretario esecutivo della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici e architetto chiave del trattato di Parigi (nonché aspirante alla successione di Ban Ki Moon) ha detto che la giornata di oggi sarà ricordata come “l’inizio d’un futuro a basso tenore di carbonio, un futuro eccitante, che porrà fine al predominio dei combustibili fossili e che porterà una infinità di innovazioni e opportunità per tutta l’umanità.”

Patricia Espinosa, la nuova segretaria della Convenzione Onu sui Cambiamenti Climatici, ha detto che “l’operatività dell’Accordo sarà decisivo non solo per affrontare i cambiamenti climatici, ma anche per sostenere  la realizzazione dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile approvato lo scorso anno dall’assemblea dell’ONU”.
Per questo è importante che a Marrakesh si facciano importanti passi avanti nell’implementazione dell’Accordo, che non solo riguarda il tema della mitigazione, cioè degli impegni di riduzione delle emissioni di gas-serra e della loro ripartizione tra i Paesi, ma anche dell’adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico, alla conservazione delle foreste poiché la loro distruzione e il loro degrado causano il 15 per cento delle emissioni globali di gas-serra, ai trasferimenti finanziari verso i Paesi in via di sviluppo per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici e compensare le perdite e i danni subiti non per proprie responsabilità, ai partenariati tecnologici, allo sviluppo di competenze scientifiche e il rafforzamento istituzionale a livello nazionale e sovranazionale, agli accordi su strumenti transnazionali e di mercato di protezione del clima.

A Marrakech, le questioni più spinosi e urgenti da affrontare saranno due: a) gli aiuti economici ai Paesi poveri del pianeta e b) il rispetto, con dati e informazioni trasparenti alla mano, degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni di gas-serra, i cosiddetti Nationally Determined Contributions, o NDC.
A Parigi i Paesi ricchi s’impegnarono a destinare 100 miliardi di dollari l’anno, fino al 2020, per lo sviluppo di nuove tecnologie energetiche, pulite e rinnovabili, e per l’adattamento ai cambiamenti climatici da parte dei Paesi poveri. Alcuni Paesi, Usa in testa, hanno manifestato le prime resistenze ad aprire i loro portafogli.

Sul tema della trasparenza degli impegni di riduzione delle emissioni di gas-serra,  a Parigi fu deciso di istituire due diversi standard per il reporting e la verifica: un sistema più stringente di valutazione e revisione internazionale per i Paesi sviluppati  e un’analisi più lieve per i Paesi in via di sviluppo.
Il testo dell’Accordo richiede a tutte le nazioni di valutare i loro sforzi di riduzione delle emissioni ad intervalli di cinque anni e conseguentemente alzare la barra degli impegni.

Cosa, in effetti, quanto mai necessaria, come ci dice la scienza dei cambiamenti climatici.  Le promesse di riduzione dei gas-serra che i 195 Paesi firmatari dell’Accordo hanno messo sul tavolo con i loro NDC cadrà ben al di sotto dell’obiettivo di 2°C.
La Cina, per esempio, intende ridurre le proprie emissioni, ma solo a partire dal 2030. L’India il terzo più grande inquinatore del mondo, ha approvato un piano che consentirà di triplicare le sue emissioni entro il 2030, un miglioramento secondo i funzionari indiani, poiché senza questo piano le emissioni sarebbero aumentare di sette volte.

La Russia, il quarto più grande inquinatore del clima del mondo, ha messo sul tavolo un piano business as asual, che non prevede concrete nuove politiche climatiche.
Gli Usa viceversa hanno predisposto un piano di riduzione abbastanza rigoroso e dettagliato, che prevede, entro il 2025, un taglio delle emissioni federali tra il 26 per cento e il 28 per cento rispetto ai livelli del 2005 e lo spegnimento delle centrali elettriche a carbone.  Purtroppo il piano predisposto dall’amministrazione Obama si trova in un limbo legale. Ventisette Stati hanno citato in giudizio l’amministrazione per bloccarlo e effettivamente la Corte Suprema lo ha bloccato in attesa dell’esito del ricorso.

Alcune analisi hanno stimato che, ammesso che tutti gli NDC siano rispettati, si verificherebbe un riscaldamento del pianeta tra 2,7 e 3,5 °C. Dall’inizio della rivoluzione industriale a oggi c’è già stato un riscaldamento di 1,0 °C.  Per raggiungere l’obiettivo di 1,5 °C molto esponenti della comunità scientifica ritengono che dovremmo ridurre la concentrazioni di gas serra in atmosfera e passare dalle attuali 400 parti per milione di CO2 a non più di 350 parti per milione di CO2. Al momento, a parte i sink naturali di carbonio (oceani ed ecosistemi vegetali terrestri), non esistono tecnologie mature di carbon sequestration and storage in grado di “risucchiare” gas serra dall’atmosfera e immagazzinarli.

Alcuni studi stimano che per raggiungere l’obiettivo di mantenere il riscaldamento sotto i 2°C è necessario che il livello globale dei gas serra raggiunga il culmine di 54 miliardi di tonnellate di CO2eq entro il 2030 e declini sino a 21 miliardi di tonnellate di CO2eq entro il 2050. Questo presuppone che entro il 2050 debba maturare un settore energetico completamente de-carbonizzato. Per cominciare, nell’arco di cinque anni ogni centrale a carbone dovrà essere chiusa.
Diversi studi hanno però dimostrato che, sulla base dei tagli delle emissioni annunciati a Parigi dalle nazioni, il mondo è sulla cattiva strada e rischia un aumento di temperatura di circa 3,5 °C alla fine del secolo.  Ciò causerebbe una serie di conseguenze ambientali disastrose, tra ondate di calore, aumento del livello del mare, danni alle colture, estinzioni di specie e diffusione di malattie.

Purtroppo al Meeting of the Parties l’Italia potrà partecipare come ‘osservatore’, avendo ratificato l’Accordo di Parigi solo la settimana scorsa con un voto del Parlamento. Il primo ministro Matteo Renzi, il 22 aprile 2016, nel suo discorso al palazzo di vetro delle Nazioni Unite, in occasione della cerimonia di firma dell’Accordo di Parigi, aveva pur sottolineato l’importanza dell’Accordo ed aveva espresso l’impegno del nostro Paese ad agire con responsabilità verso le generazioni future e l’occorrenza di fare la propria parte in un’azione collettiva e condivisa di lotta ai cambiamenti climatici.  Matteo Renzi dichiarò anche che il contenuto dell’Accordo sarebbe stato considerato come una priorità nella definizione di politiche nazionali, a livello di UE e di G7.

Per rientrare nell’obiettivo dei +2°C, l’Italia dovrebbe ridurre il livello di emissioni registrate nel 1990 del 30% entro il 2020, del 38% entro il 2030 e di oltre il 70% entro il 2050. Per raggiungere l’obiettivo dei +1,5°C invece le riduzioni dovrebbero essere del 38% entro il 2020, del 60% entro il 2030 e del 90% entro il 2050.